Il rapporto IPCC (ONU) dice che le scelte prese oggi saranno determinanti per la sopravvivenza della specie umana
Le prime immagini di questa estate, lo scorso 21 giugno, sono state quelle provenienti dal sistema satellitare europeo Copernicus, che hanno mostrato una Siberia color rosso fuoco. 48°C è il nuovo record di temperatura raggiunto vicino Verkhoyansk, oltre il circolo polare artico. Iniziava così il racconto di un’estate che ormai si ripete anno dopo anno, fatto di ondate di calore, siccità, incendi, improvvise e devastanti piogge, fino alla stagione degli uragani che già si prevede per quest’anno più attiva del previsto.
In questo scenario, tutte le nostre preoccupazioni vengono confermate dal rapporto ufficiale del Rapporto dell’IPCC, il Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che raccoglie migliaia di scienziati provenienti da tutto il mondo che elaborano periodicamente voluminose analisi dello stato delle conoscenze scientifiche in materia e delle misure da intraprendere per limitare i danni. Il messaggio è perentorio: i cambiamenti climatici modificheranno la vita sulla Terra nei prossimi secoli, anche se si riuscisse effettivamente a ridurre drasticamente le emissioni di gas serra.
Il rapporto è elaborato dal secondo (su tre) Gruppo di Lavoro dell’IPCC al sesto Rapporto di valutazione. Nel 2014, quando è stato pubblicato l’ultimo rapporto di valutazione dell’IPCC, sono state molte le critiche mosse al Gruppo per aver edulcorato alcune affermazioni piuttosto dure. Essendo l’IPCC sotto l’egida delle Nazioni Unite infatti, ogni Rapporto, prima di essere reso pubblico, deve passare per l’approvazione politica dei governi, che se non arrivano normalmente a contestare le basi scientifiche, certo hanno un’influenza cruciale sui termini in cui vengono espresse e le conclusioni che se ne traggono.
Il Rapporto speriamo influisca sulla CoP 26, la ventiseiesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dove i governi di tutto il mondo si riuniscono per (si auspica) definire come limitare il riscaldamento globale e fare fronte ai devastanti impatti. La conferenza di quest’anno, che si terrà a Glasgow a novembre, è particolarmente attesa per una duplice ragione: da una parte, perché a causa della pandemia questo appuntamento annuale è saltato nel 2020, con la perdita di preziosi mesi di negoziazione, e dall’altra, perché è davvero l’ultima occasione in cui i Paesi possono trovare un accordo per riuscire a contenere i cambiamenti climatici. E non si tratta di un espediente retorico, anche in questo caso per due motivi: da una parte, perché in gioco c’è il possibile fallimento del tanto sbandierato Accordo di Parigi, raggiunto durante la CoP del 2015, e millantato come la soluzione definitiva, dall’altra perché le scelte di oggi saranno cruciali per i prossimi decenni.
L’Accordo di Parigi infatti stabilisce un impegno a livello globale a mantenere l’innalzamento delle temperature temperature al di sotto dei 2°C rispetto al periodo preindustriale, e di sforzarsi a limitarlo a +1,5°C, tuttavia ha lasciato agli Stati il compito di definire i propri contributi (chiamati tecnicamente NDC, nationally-determined contributions), senza definire neanche con precisione le regole con il quale questi contributi avrebbero dovuto essere presentati e contabilizzati. Il risultato è che, secondo un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) pubblicato a dicembre 2020, gli attuali impegni presi dagli Stati ci porterebbero a uno scenario di fine secolo con temperature di 3°C più alte rispetto al periodo preindustriale. L’inflessibilità e la mancanza di fiducia tra gli Stati sono anche all’origine del triste epilogo della sessione preparatoria alla CoP 26, tenutasi virtualmente dal 31 maggio al 17 giugno, che sarebbe dovuta servire a spianare la strada ai negoziati di Glasgow e che invece si è chiusa senza passi avanti.
L’altro motivo per cui la CoP 26 rappresenta un appuntamento così importante ci riporta all’IPCC. Già nel 2018, quando il Gruppo pubblicava lo storico Rapporto Speciale su un Riscaldamento Globale di +1,5°C, la comunità scientifica scriveva nero su bianco che entro il 2030 le emissioni avrebbero dovuto essere dimezzate a livello globale per non superare questa soglia cruciale. Eppure, dopo il breve calo causato dalla pandemia, per il 2021 l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), non esattamente un’organizzazione ecologista e che in passato ha sempre preso le parti dell’industria energetica, ha previsto un aumento delle emissioni a livelli superiori a quelli del 2019, e ha chiesto ai Governi di non approvare nuovi impianti fossili.
Secondo il nuovo Rapporto dell’IPCC senza mezzi termini affermerebbe che le scelte prese oggi saranno determinanti per il benessere, o anche solo per la sopravvivenza, della specie umana da qui al 2100. Ed è impossibile ormai ignorare il fatto che le scelte che la comunità scientifica ci chiede di fare implicano un ripensamento drastico delle nostre società. Il percorso per la neutralizzazione delle emissioni identificato dall’IEA, prevederebbe ogni giorno l’installazione di un parco solare dalle dimensioni pari al più grande attualmente esistente, e ogni anno l’aggiunta di potenza installata per l’eolico e il solare pari a quattro volte tanto il livello record raggiunto nel 2020. È evidente che si tratta di valori forse tecnicamente raggiungibili, ma impossibili nella pratica, nonché con impatti non trascurabili in termini di sfruttamento di risorse inquinanti la cui estrazione oggi è intrisa di sangue e abusi, utilizzo di terreni, futuro accumulo di rifiuti difficili da smaltire, e così via.
Per tagliare le emissioni, è necessario affrontare il grande non-detto di tutti i negoziati internazionali, ovvero che la crescita economica infinita e la generazione continua di profitti non sono compatibili con il raggiungimento di una situazione di equilibrio con il nostro pianeta e di giustizia tra le società, ed è ora che chi si è arricchito e ha speculato sulle spalle della maggior parte della popolazione globale ne paghi le conseguenze.