attivisti

Il manifesto per la ricostruzione

Se resta uguale, rimane diseguale.

Questi non sono buoni propositi.
Sono piani di battaglia.
Non auspichiamo il cambiamento.
Vogliamo determinarlo.
Il mondo di oggi non è un posto migliore.
Ma potrebbe esserlo.

Volevamo cambiare tutto prima della pandemia, abbiamo maledettamente bisogno di farlo adesso.  Sembrano così lontani i buoni sentimenti e i proclami dei primi giorni di lockdown, gli striscioni andrà tutto bene sui balconi sono ormai sbiaditi.

Ci dicevano “il mondo non sarà più lo stesso”, ma se nella quotidianità molte cose sono drammaticamente cambiate, molto altro è rimasto inalterato: la ferocia dello sfruttamento, le diseguaglianze di genere, il ricatto tra lavoro e salute, l’assenza di tutele per i più deboli, l’enorme disuguaglianza tra ricchi e poveri, il razzismo, la violenza del patriarcato e gli equilibri ecologici del pianeta sempre più compromessi.

Per il virus le persone sono davvero tutte uguali?  Chi ha un lavoro e chi è disoccupato, chi ha dei risparmi e chi no, chi una villa o chi vive in un affollato appartamento in affitto, chi è in salute e chi fa parte di una categoria a rischio, chi deve lavorare e insieme occuparsi dei figli e chi no, chi vive in un contesto familiare violento o in uno spazio sicuro. Il virus non fa altro che accrescere le diseguaglianze, accelerare processi già in corso, rendere ancora più evidenti le ingiustizie troppo spesso invisibili.

A tutte e tutti noi, alle donne e agli uomini che vivono sulla loro pelle queste ingiustizie spetta il compito di organizzare le loro passioni e le loro intelligenze per cambiare rotta. Per costruire un mondo nuovo

Il mondo in cui viviamo è frutto di scelte politiche, interessi di parte, gruppi economici e culturali egemoni, è frutto della vittoria dei pochi che hanno tanto, sui tanti che hanno poco. Ma altre scelte politiche sono possibili. Un’altra parte di società può organizzarsi e trasformare le nostre vite.

Siamo di fronte a un nuovo drammatico capitolo di quella che tutti comunemente chiamano crisi: l’ennesimo momento in cui i ricchi diventano più ricchi, i poveri più poveri e gli equilibri ecologici più a rischio. 

Ma nelle crisi, con l’economia crollano anche le certezze, e le proposte che sembravano irrealizzabili sono ora viste da tutti come semplice buon senso. Il mantra “non ci sono i soldi” si è squagliato davanti all’urgenza di iniettare miliardi nell’economia, il dominio della finanza non è mai parso così effimero, la realtà bussa alla porta e pretende risposte. 

L’Italia è stata il primo paese occidentale ad essere colpito dalla pandemia, il paese con il lockdown più duro, che ha pianto decine di migliaia vittime senza neanche la consolazione di un rito collettivo. Sono stati mesi durissimi, socialmente ed emotivamente. Abbiamo bisogno di una grande e ambiziosa stagione di ricostruzione.

L’Italia cambierà se saremo noi a disegnare il Paese che verrà. Le opportunità arriveranno con un piano di assunzioni pubbliche, l’aria manterrà l’inedito sapore pulito dei giorni di lockdown se cambieranno le nostre città e il nostro modo di spostarci, la crescita arriverà con gli investimenti mirati, la felicità e la giustizia saranno reali con la parità sociale ed economica di genere, la libertà arriverà con la sicurezza sociale, la scuola tornerà a vivere se avremo migliaia di nuovi insegnanti, risorse e strutture adeguate, il debito diminuirà se creeremo sviluppo e lavoro buono, l’innovazione arriverà con la ricerca pubblica, l’efficienza arriverà con l’ampliamento del welfare.

Tutto ciò arriverà, tutto ciò avverrà se saremo noi a conquistarlo. La battaglia per un mondo nuovo non sarà semplice. Chi vive di rendita e dello sfruttamento degli altri ci prefigura già un futuro di sacrifici e privazioni, rinunce nostre per fortune altrui. Ma ormai conosciamo l’inganno: ci rialzeremo solo se saranno soprattutto loro a pagare un grande piano che tuteli e valorizzi la maggioranza delle persone che vivono e lavorano in Italia, indirizzando gli investimenti sulle sfide epocali del nostro presente: questione ecologica, riduzione delle disuguaglianze sociali e di genere, stabilità del lavoro.

La società in cui viviamo? Ricostruiamola, diversa.

 

Il Manifesto per la ricostruzione non è un elenco di richieste al governo… è il programma di un’alternativa di società.

Il Manifesto per la ricostruzione non contiene proposte contingenti… ma grandi battaglie in grado di ricostruire una proposta e una cultura politica. 

Il Manifesto per la ricostruzione non chiede di tornare a prima della pandemia… ma di realizzare una società giusta e sicura.

Il Manifesto per la ricostruzione non è una collezione di proposte utopiche, ma un piano realistico per superare la crisi che viviamo.

Il Manifesto per la ricostruzione è lo strumento per una grande discussione collettiva, per smuovere e organizzare chi, come noi, ha bisogno di lavorare per vivere, chi desidera una vita degna e serena, in un mondo giusto.

Il mondo nuovo

Dopo il 2008 l’Europa ha deciso, come risposta alla crisi, di intraprendere la strada della competizione: a livello internazionale tra gli stati, all’interno degli stati tra le regioni, all’interno della società tra gli individui. L’esito è stato la crescita delle disuguaglianze, delle ingiustizie sociali e una generale depressione economica. Questi effetti sono oggi ancora più evidenti nel contesto della pandemia. 

Chi ha provato a guidarci fuori dalla crisi del 2008 sono stati gli stessi che l’avevano causata: tecnici e imprenditori “illuminati”, politici ed economisti liberisti. Hanno riproposto e inasprito le stesse ricette che avevano portato alla crisi: liberismo, competizione sfrenata, definanziamento dei servizi, detassazione delle rendite. Il risultato è stato fallimentare.

Da questo fallimento, reso ancora più pericoloso dalla crisi dovuta alla pandemia, non si può uscire con le solite ricette. Non basta provare a rimettere insieme i cocci, fare ulteriori sacrifici. Occorre avere il coraggio di intraprendere strade nuove. Solo una società giusta e davvero democratica potrà farci ripartire.

Se negli ultimi dieci anni siamo andati in una direzione diversa è perché chi ha governato ha millantato di poter ottenere tutto questo affidandosi alle virtù del mercato. Il mercato invece ci ha relegato a una posizione subalterna, a una costante diminuzione degli stipendi, dei diritti, delle aspettative di felicità.

La scelta di cosa produrre, dove e come farlo, su cosa e come investire, non può più essere lasciata alle solite poche famiglie del capitalismo italiano, che riducono i salari, intascano profitti e portano le aziende nei paradisi fiscali. Dobbiamo avere il coraggio di dire che questo modello ha fallito, e che nel suo fallimento ha mortificato i sogni di intere generazioni condannate all’insicurezza e alla precarietà, ha spopolato le aree interne del paese e del Meridione, distrutto il Paese.

Occorre che le decisioni su cosa e come investire siano fatte per il benessere di tutte e tutti, in settori strategici ad alto valore aggiunto che rispondano a sfide epocali, come la transizione ecologica e quella digitale, la questione educativa e quella sanitaria. Basta con la rinuncia a governare i processi economici lasciando mano libera a chi ne trae vantaggio. A ogni investimento deve corrispondere un interesse pubblico, a ogni interesse pubblico deve corrispondere la forza necessaria a tutelarlo, l’unica forza degna di essere costruita è quella di un accresciuto protagonismo democratico.

 

Riappropriamoci delle aziende pubbliche e mettiamole al servizio della collettività

Nel mondo nuovo la smettiamo di tagliare e ricominciamo a considerare gli investimenti pubblici come la migliore garanzia di un futuro fatto di lavoro degno, di un’economia sostenibile che risponde alle sfide vecchie e nuove del nostro paese (dal cronico divario nord-sud al cambiamento climatico, passando per la riduzione delle disuguaglianze sociali e territoriali tra aree interne e centri delle metropoli).

Come proposto dal Forum Disuguaglianze, il primo passo è riappropriarci delle imprese che ancora sono pubbliche e metterle a servizio della collettività. Le nostre imprese pubbliche producono infatti quasi la metà del fatturato delle imprese quotate in Borsa in Italia, contano quasi mezzo milione di dipendenti, e sono presenti in settori tecnologicamente decisivi – a partire dall’energia. Oggi queste aziende (quando non se ne minaccia la svendita, per creare nuove Alitalia e Ilva da salvare coi soldi pubblici dopo che i privati hanno saccheggiato) vengono gestite come normali aziende private. La pandemia e le sfide economiche che ci troviamo davanti – a partire dalla produzione di dispositivi sanitari e dalla necessità di vaccini, fino alla riconversione delle nostre modalità di lavoro e di vita – devono essere la scintilla per dare alle imprese pubbliche esistenti nuove missioni strategiche, che includano la sfida di realizzare la transizione a un’economia sostenibile.

Uno solo degli esempi possibili è l’Eni, che anziché rappresentare il “campione nazionale” di una transizione energetica (doppiamente desiderabile per un paese privo di idrocarburi come l’Italia), al di là di operazioni comunicative, continua a investire in un modello insostenibile invece di investire in tecnologie di pubblica utilità, finendo per giunta sulla stampa per pratiche di “ottimizzazione fiscale” a danno del suo stesso azionista principale, cioè noi, e per il coinvolgimento nelle inchieste sulla corruzione internazionale.

Un milione di posti di lavoro pubblici: efficienza e benessere per tutti

Nel mondo nuovo vogliamo un piano straordinario di assunzioni pubbliche a tempo indeterminato nei settori dell’innovazione, della formazione, del welfare e in tutti quegli ambiti che producono benessere e sicurezza per tutti. La nostra pubblica amministrazione è la più “vecchia” d’Europa (età media 52 anni) e per colpa delle politiche di austerity ha perso negli ultimi 10 anni quasi il 15 % del personale. Oggi abbiamo 1/3 in meno di dipendenti pubblici rispetto a Francia, Germania e Inghilterra. Non bastano certo il ripristino del turnover e i pensionamenti di quota 100: serve una massiccia iniezione di energie nuove.

Un milione di posti di lavoro pubblici è una proposta di buon senso con moltissimi benefici: rafforza i settori più importanti della macchina statale, aumenta l’efficienza dei servizi ai cittadini, immette energie e nuove competenze nell’amministrazione pubblica, mette fine all’ingiustizia del precariato nella pubblica amministrazione che ha conosciuto nell’ultimo decennio un’esplosione con la caduta dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato del 15,2% a fronte della crescita dei part-time involontari del 5,8%. È un intervento necessario per dare un futuro a molti giovani, consentendo l’aumento del reddito disponibile e quindi riattivando il motore della crescita economica attraverso lo stimolo alla domanda interna.

In particolare, abbiamo bisogno di: 40.000 nuovi medici (soprattutto di base); 60.000 nuovi infermieri; 80.000 nuovi operatori socio sanitari; 40.000 nuovi educatori nei servizi per l’infanzia; 170.000 nuovi insegnanti (scuole primarie e secondarie); 50.000 nuovi ricercatori (università + enti di ricerca); 30.000 figure professionali per i consultori (ginecologi, psicologi, assistenti sociali, educatori, ecc.); 45.000 figure di tutela e promozione del patrimonio artistico e culturale (archeologi, bibliotecari, archivisti); 25.000 nuovi ispettori del lavoro (ce ne sono solo 4.000 in Italia!); 100.000 nuove figure tecniche specializzate nella digitalizzazione, nella gestione dei fondi strutturali, nella qualità e inclusività dei servizi pubblici, nella progettazione ambientale e nello sviluppo sostenibile, nella mobilità; 70.000 nuovi impiegati nelle amministrazioni pubbliche centrali e nelle agenzie collegate; 130.000 nuovi impiegati nelle amministrazioni locali, soprattutto nei comuni e nei loro servizi al cittadino; 160.000 nuovi posti di lavoro per re-internalizzare, finalmente, i servizi che sono stati esternalizzati dagli enti locali (servizi sociali, educativi, di pulizia, contabilità, trasporto, informazione, ecc.).

Commissariamo le aziende inquinanti: riconversione ecologica subito!

Nel mondo nuovo combatteremo la crisi climatica azzerando l’utilizzo del carbone entro il 2025 e le emissioni di gas clima alteranti entro il 2050. La riconversione ecologica dell’economia è possibile solo smettendo di rincorrere la crescita dei profitti a tutti i costi e mettendo al centro delle politiche il benessere collettivo e quindi il futuro della specie umana e degli ecosistemi.

Le aziende con più di un milione di euro di fatturato devono presentare nel bilancio il proprio impatto ambientale e lo Stato deve entrare direttamente nella gestione di quelle inquinanti per permettere l’innovazione nei processi produttivi e gestire la riconversione ecologica, così da orientare l’attività aziendale al benessere collettivo. La gestione dei servizi essenziali quali acqua, energia, rifiuti e trasporti deve essere pubblica, partecipata e orientata all’innovazione e alla riduzione degli sprechi e delle emissioni. Servono un piano di investimenti pubblici nell’infrastruttura idrica e un nuovo piano energetico nazionale, gli incentivi alle fonti fossili devono essere azzerati e reinvestiti nella produzione di energia rinnovabile, anche attraverso l’incentivo per un modello di produzione distribuito dell’energia. Bisogna superare il modello insostenibile di mobilità privata attraverso il ripensamento completo del sistema di Trasporto Pubblico Locale e Nazionale che deve essere potenziato ed elettrificato, spostando il trasporto merci dalla gomma al ferro.

Dobbiamo bloccare il consumo di suolo, rinnovando i piani urbanistici di città e paesi secondo nuovi criteri volti all’aumento delle aree verdi e piantumate, favorendo un’innovazione del settore primario rispettosa degli ecosistemi grazie al divieto di utilizzo di prodotti dannosi per l’ambiente, incentivando la piccola produzione di qualità. 

La tutela del territorio e degli ambienti in cui viviamo deve essere rafforzata attraverso nuovi strumenti di controllo partecipati dalle popolazioni locali, attraverso una riforma delle Arpa in senso partecipativo, potenziando il ruolo degli enti locali nella gestione del territorio e delle bonifiche, garantendo l’applicazione del principio “chi inquina paga” e attraverso l’ampliamento degli ecoreati.

Una nuova idea di famiglia definita dalla cura e dall’affetto

Troppo spesso e troppo a lungo la promozione della famiglia è stata un punto politico conservatore. Nel mondo nuovo è ora di declinare questo tema secondo un nuovo approccio, basato sulla cura reciproca e sull’affetto invece che sui legami di sangue. Troppo spesso, quando pensiamo alla famiglia ci vengono in mente solamente un insieme di obblighi, di ansie nell’arrivare alla fine del mese, pensiamo ai figli e alla possibilità di poterli mantenere fino all’Università, mentre ci rendiamo pienamente conto che molte delle opportunità che abbiamo avuto dai nostri genitori probabilmente non potremo restituirle ai nostri figli. È tutto drammaticamente vero. E spesso, sopraffatti dai problemi della quotidianità, dimentichiamo che la famiglia è innanzitutto lo stare insieme sulla base dell’affetto, a prescindere dal genere, a prescindere dalla classe sociale, a prescindere dalla voglia o meno di avere dei figli, a prescindere dal riconoscimento civile.

La nostra generazione è forse la prima che è cresciuta pensando che fare dei figli fosse una possibilità, non la regola. Ma siamo veramente liberi di poter scegliere di mettere al mondo, in questo mondo, dei figli? O la nostra libertà di scelta è comunque condizionata da contratti a tempo determinato, costi eccessivi per l’affitto di casa, mutui a cui non possiamo accedere, welfare scadente se non assente? È qui che può e deve intervenire la politica, con delle misure che siano di sostegno non alla donna, ma alla famiglia. Crediamo sia necessaria l’estensione del congedo di maternità/paternità, obbligatorio e pienamente retribuito, a entrambi i genitori dalla nascita del bambino ai primi cinque mesi di vita, a prescindere dalla tipologia di contratto lavorativo, così da coinvolgere in maniera paritaria fin dall’inizio entrambi i genitori e, allo stesso tempo, non creare disuguaglianze di opportunità nei luoghi di lavoro.

È necessario ampliare i permessi di congedo parentale retribuito per entrambi i genitori per i primi anni di vita del figlio o della figlia. È necessario creare asili nido in tutta Italia, gratuiti, in primis per il diritto all’educazione dei bambini e delle bambine, ma anche per permettere a entrambi i genitori di tornare al loro lavoro. È necessario potenziare il welfare degli enti locali, i luoghi per i bambini nelle città, i consultori e le reti di supporto per le famiglie. Infine, è necessario ripensare in toto il sistema delle adozioni e degli affidi, renderlo più snello e veloce,  aperto a tutte le coppie stabili, omosessuali ed eterosessuali, e anche ai single.

Per chi come noi vive per migliorare ciò che ci circonda, il primo spazio in cui realizzare il cambiamento è la famiglia, che può diventare il primo luogo in cui sperimentiamo disuguaglianze tra i generi. La politica può e deve incidere per cambiare gli equilibri esistenti. Solo incidendo nella vita materiale delle persone possiamo dare vita a quella rivoluzione della cura e degli affetti di cui la nostra società ha bisogno.

Rifinanziamento dei comuni contro gli egoismi territoriali

Nel mondo nuovo la democrazia è promossa a tutti i livelli, con la creazione di nuovi istituti di partecipazione, a partire dal quartiere nel quale si vive fino al livello regionale e statale, rafforzando l’istituto referendario e le proposte di legge d’iniziativa popolare. Una democrazia matura passa anche dalla partecipazione diffusa della cittadinanza, oltre che da una proficua dialettica con la rappresentanza istituzionale, a partire da quella che amministra i comuni, sempre più impotenti di fronte alle esigenze sociali.

Servono trasferimenti straordinari volti a garantire l’assoluta continuità nell’erogazione dei servizi, ampliandoli nei settori più importanti come il sociale e reinternalizzando ciò che è stato negli anni esternalizzato. Per fare ciò bisogna aumentare le risorse con un intervento statale, introducendo dei livelli essenziali di prestazione e riformando contestualmente i criteri di ripartizione del fondo di solidarietà comunale, che ha ampliato negli anni il divario tra il sud, le isole e il resto del paese.

Accanto a ciò, occorre un ripensamento del ruolo dei comuni. Il centralismo regionale non ha mai pagato in termini di efficienza burocratica, favorendo la moltiplicazione delle dinamiche clientelari. Va approntato un progetto alternativo agli egoismi territoriali, che non abbia la forma di un neo-centralismo ma di una responsabile codeterminazione delle politiche, in un quadro di garanzia dei livelli essenziali dei servizi e delle prestazioni. Questo serve soprattutto per affrontare la questione meridionale e insulare, rimosse definitivamente dalla Costituzione con la riforma del 2001 e affrontate nei decenni o con inerzia o con fallimentari processi di modernizzazione esogena guidati dalla grande impresa delle regioni maggiormente sviluppate.

Democratizzare la rivoluzione digitale

Nel mondo nuovo il Pubblico è proprietario, gestore, fruitore e decisore rispetto a tutte le nuove e straordinarie possibilità che lo sviluppo tecnologico può offrire alle persone. Questo vuol dire rovesciare la piramide economica, puntando sulla democrazia e sul potere pubblico per generare nuove politiche nei territori. Dobbiamo sfidare e smontare il potere di monopoli e oligopoli multinazionali che hanno conquistato trilioni di dollari grazie all’uso privato delle relazioni di scambio, degli interessi, della vita delle persone: ovvero dei Big Data.

Le nuove trasformazioni produttive e tecnologiche in atto si stanno rivelando un’ennesima occasione per il profitto di pochi a discapito dei diritti di tutti. L’innovazione tecnologica deve andare a vantaggio di tutti, i monopoli digitali non sono altro che ladri di intelligenza, umanità e relazioni. Nel nuovo mondo il Pubblico avrà il compito di ri-espropriare tutte le ricchezze accumulate indebitamente dai gruppi privati e trasformare l’intelligenza sociale e tecnologica in un’occasione per tutte e per tutti. Bisogna immediatamente esigere un governo pubblico e democratico delle informazioni e dei servizi che si possono generare per la popolazione. Ne va della democrazia stessa, del controllo delle informazioni, delle menti, del controllo sociale e culturale. Nel nuovo mondo avremo infrastrutture pubbliche digitali, realmente gratuite e non finalizzate al profitto. Infine, la crisi pandemica ha accelerato notevolmente la transizione digitale, modificando violentemente anche l’organizzazione del lavoro e della società. Lo smart working non può essere un nuovo strumento di alienazione e sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, che scarica sui singoli costi e responsabilità senza alcuna reale autonomia. Può e deve essere uno strumento reale di autonomia e conciliazione, che dunque va normato con nuovi diritti come il diritto alla disconnessione.

Rigenerare il lavoro, rigenerare le città, generare nuova occupazione

Nel mondo nuovo ci saranno politiche pubbliche di pianificazione delle nostre città basate sui principi dell’economia civile: generare nuove forme collaborative e di cooperazione attraverso l’innovazione, la ricerca, l’agricoltura di qualità, in grado di sviluppare nuova occupazione per i giovani; rigenerare i luoghi in disuso del patrimonio pubblico e privato delle città per costruire forme di nuovo welfare dal basso, per dare casa a chi non ce l’ha, per creare cooperative di comunità e di abitanti per generare maggiore benessere e relazioni sul territorio; costruire nuove relazioni sociali basate sulla condivisione del tempo, delle competenze e dell’idea di spazio condiviso da abitare. Occorre pianificare politiche pubbliche distribuite in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale per rafforzare il lavoro di  ricerca e sviluppo sulle nuove trasformazioni produttive: dalla sanità, all’agricoltura, all’artigianato, ai nuovi materiali e tessuti, alla riconversione ecologica, alle politiche culturali. Solo lo Stato può fare questo lavoro di pianificazione immaginando, in forma democratica, lo sviluppo dei territori, generando un lavoro cooperativo, equo e garantito capace di disegnare un nuovo sviluppo.

Il nostro Paese ha tutte le condizioni per farlo. Abbiamo a disposizione milioni di metri quadrati di patrimonio pubblico e privato dismesso, sottoutilizzato o non utilizzato. Si tratta di beni confiscati alle mafie, di fabbriche dismesse, di beni agricoli non utilizzati, di patrimonio artistico e culturale sottoutilizzato. Ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro che si possono generare, riappropriandoci dell’immenso patrimonio immobiliare dislocato in tutto il Paese. Se la sfera pubblica fosse capace di orientare le politiche pubbliche, garantire diritti e salari, difendere il territorio, si scriverebbe una nuova pagina di storia, unica in Italia. La strategia di pianificazione del riuso del patrimonio pubblico dovrebbe avvenire attraverso percorsi di partecipazione, secondo i principi e le esperienze dei beni comuni urbani. Nel nuovo mondo le città sono lo spazio in cui le decisioni sono condivise e definite assieme agli abitanti, sperimentando un nuovo modo di vivere la democrazia, generando lavoro, riconversione ecologica e benessere diffuso. 

Una vita degna

Pensare che la ricostruzione possa partire da appelli ai sacrifici e da compromessi al ribasso significa partire col piede sbagliato. L’abbiamo già sperimentato dopo il 2008 e non ha funzionato: ci è stato chiesto di avere pazienza, di aspettare accettando lavori sempre più precari e meno tutelati, salari da fame, strumenti di welfare inefficaci, trasporti pubblici assenti o fatiscenti, scuola, università e sanità in costante emergenza e a corto di personale e risorse; ci è stato chiesto di scordarci delle disuguaglianze di genere e di pensare solo a stringere i denti. Ci hanno detto che serviva ad “agganciare la ripresa”, a “ritrovare la crescita”. Ci siamo ritrovati solo più poveri e con meno diritti, soprattutto chi già scontava un gap salariale, di opportunità e di riconoscimento, come le donne e i giovani.

Questa volta cominciamo col dirci che quella che ricostruiremo deve essere un’Italia nella quale la dignità delle condizioni di vita è garantita universalmente a tutti, senza eccezioni e da subito. La concorrenza ci farà sprofondare nella recessione, la dignità ci farà uscire dalla crisi.

Mai più salari da fame. Mai più contratti precari.

Una vita degna non è una generica speranza, è una vita concretamente diversa da quella della maggior parte delle persone. Aspiriamo a una vita nella quale nessun lavoratore e nessuna lavoratrice possano essere poveri. Non ci possono essere passi indietro su questo, in un paese in cui la povertà condanna più di cinque milioni di lavoratori a una condizione di indigenza. 

È necessario introdurre un salario minimo per legge che equipari le condizioni salariali tra uomo e donna, tenendo insieme l’istituto legislativo e il ruolo del contratto collettivo nazionale. Come avviene in altri paesi europei il contratto collettivo ha la funzione di stabilire i minimi salariali di categoria, per questo serve quanto prima una legge sulla rappresentanza per arginare il fenomeno del dumping contrattuale. La normativa deve poi garantire un trattamento minimo legale, che funga da pavimento per tutti quei contratti collettivi che prevedono soglie orarie inferiori ai 9 euro lordi. Alla soglia dei 9 euro lordi bisogna aggiungere, e non togliere, le mensilità che vengono erogate su base annua (ferie, permessi, tredicesima, eventuale quattordicesima, ecc.). Si tratta di un provvedimento che trasferirebbe 7,5 miliardi di reddito dai profitti ai salari, una misura necessaria di contrasto alle diseguaglianze e urgente per rimettere in moto il motore della crescita economica. Oltre a ciò non è più rinviabile una revisione in chiave estensiva dello Statuto dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici così come proposto dalla legge di iniziativa popolare che giace da anni in Parlamento. Il potenziamento delle politiche salariali deve essere accompagnato a un rafforzamento  dei diritti del mondo del lavoro in chiave inclusiva, al fine di superare la frammentazione e la precarietà degli ultimi decenni. L’introduzione di un salario minimo legale e di un nuovo statuto dei diritti deve muoversi di pari passo con una riforma delle tipologie contrattuali e del regime di orario. Il 70 % dei lavoratori poveri è ingabbiato in rapporti di lavoro di breve durata, spesso part-time involontari, che non consentono di accumulare un reddito annuo necessario a soddisfare i bisogni elementari. Il part-time involontario è una piaga che affligge moltissimo le donne, tra quelle che lavorano part-time addirittura 2 su 3 dichiarano di lavorare a tempo parziale perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno (1 su 5 tra tutta la forza lavoro femminile).

Per tale ragione bisogna individuare per legge una fascia oraria minima che vieti il ricorso a part-time di breve durata, unitamente al ripristino delle causali nel rapporto di lavoro a tempo determinato e alla riduzione delle proroghe. Vanno cancellati tutti i rapporti di lavoro che hanno allargato le maglie della precarietà: dal contratto di somministrazione allo staff leasing, dal contratto a chiamata alle prestazioni occasionali. Devono essere aboliti i tirocini formativi che hanno generato solo manodopera a basso costo e garantito i profitti delle imprese. La razionalizzazione delle tipologie contrattuali deve portare a quattro tipologie: il contratto a tempo indeterminato, il contratto a tempo determinato con le causali e la riduzione a tre proroghe nell’arco di 24 mesi, il contratto di apprendistato e la collaborazione coordinata e continuativa. Il reddito di cittadinanza va mantenuto come indispensabile misura di lotta alla povertà e come strumento contro la ricattabilità dello sfruttamento e dei salari da fame.

Nuove relazioni (di potere) tra i generi

Una vita degna è quella che promuove nuove relazioni tra i generi – libere, aliene dalle dinamiche di controllo e possesso, che alla competizione sostituiscano la solidarietà e la cooperazione. Occorre riconoscere la questione di genere come un’emergenza nazionale, tanto nelle sue declinazioni più gravi e violente, quanto nella vita ordinaria di tutti noi.

L’emergenza sanitaria ha ulteriormente amplificato la realtà della violenza di genere: durante il lockdown (1 marzo-16 aprile) le telefonate al numero verde antiviolenza sono aumentate, rispetto allo stesso periodo del 2019, del 73%, mentre le vittime che hanno chiesto aiuto sono aumentate del 59%. Per combattere questa cultura della prevaricazione c’è bisogno di rifinanziare i centri anti-violenza e di aprirne di nuovi, nonché di finanziare politiche di sostegno economico diretto perché le donne possano sottrarsi all’abuso e alla violenza domestica.

Anche sul posto di lavoro le donne subiscono il ricatto della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, nonché una strutturale disparità salariale rispetto agli uomini. Occorrono interventi legislativi radicali e coraggiosi, che impongano l’uguaglianza sostanziale e prevedano sanzioni adeguate per ogni tipo di violazione. Serve una legge sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che tuteli le donne sul posto di lavoro e promuova l’assunzione paritaria del lavoro di cura in famiglia, a iniziare dall’istituzione del congedo parentale retribuito e obbligatorio per entrambi i genitori.  Occorre un intervento legislativo sulla parità salariale tra uomini e donne, a partire dalla pubblica amministrazione, che riesca a chiudere in pochi anni l’attuale gap salariale.

Dobbiamo essere capaci di vedere le disuguaglianze in cui siamo immersi per poter rivendicare politiche strutturali e al tempo stesso – perché la vita non aspetta – costruire percorsi di emancipazione dal basso.

Istruzione gratuita dal nido fino all’università

Una vita degna è quella che prevede l’istruzione come un diritto fondamentale, e l’aumento dei livelli di scolarizzazione come un obiettivo strategico, soprattutto in un mondo che richiede sofisticati strumenti critici di comprensione della realtà e in cui la produzione di valore è inestricabilmente connessa alla conoscenza. L’istruzione deve essere gratuita, dall’asilo nido all’Università. Questo significa abolire le rette degli asili nido e aumentare il numero di posti disponibili (almeno al 33% su tutto il territorio nazionale); cancellare i cosiddetti “contributi volontari” della scuola e le tasse universitarie; raddoppiare la spesa per il diritto allo studio universitario.

Ciascuno dei tasselli del percorso di istruzione rappresenta uno snodo cruciale per il contrasto alle diseguaglianze, a partire dai servizi socioeducativi per la prima infanzia, in Italia assolutamente inadeguati per numero di posti e preclusi a molti per il loro costo. Occorrono 130.000 nuovi posti in nidi a gestione diretta, che richiedono un investimento di 1,2 miliardi, insieme a interventi per ristrutturare o convertire immobili a uso di asili nido. Per azzerare le onerose tariffe di frequenza, la cui media mensile è stimata in 300 euro, occorre un investimento di circa 2,5 miliardi. Bisogna poi aggredire i costi occulti del percorso scolastico, rappresentati dai cosiddetti “contributi volontari della scuola”, una tassa occulta sui figli e sull’istruzione pubblica, particolarmente odiosa perché imposta ai genitori in spregio al principio normativo e costituzionale di gratuità della scuola dell’obbligo. Si tratta di versamenti teoricamente facoltativi ma di fatto necessari per tamponare il definanziamento della scuola pubblica. Occorre rifinanziare massiciamente le scuole e vietare la raccolta di questi contributi.

La pandemia ha riportato al centro la scuola nel dibattito pubblico, ma ha anche messo sotto i riflettori le carenze strutturali frutto del disinvestimento degli ultimi decenni. Alla scuola servono prioritariamente più insegnanti stabili e una grande stagione di investimenti nell’edilizia

L’università rappresenta ancora un privilegio per pochi. L’Italia conta il 27,8% di laureate e laureati tra i 30 e 34 anni a fronte di una media europea del 40,7%; sconta un sistema di diritto allo studio in cui beneficiano di borsa solamente il 12% degli iscritti a fronte del 33% della Francia, del 28% della Spagna, del 22% della Germania; presenta le tasse universitarie più alte d’Europa dopo Inghilterra e Olanda (circa 1350 euro in media all’anno). È necessario potenziare il diritto allo studio (600 milioni per raddoppiare i percettori di borsa), abolire le tasse universitarie (1,6 miliardi) come già accade in Germania, Scozia, Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia, e predisporre un piano per l’edilizia universitaria capace di promuovere la creazione di 100.000 nuovi posti letto.

Una sanità nazionale e diffusa

L’epidemia di coronavirus ha portato alla luce gli effetti devastanti che decenni di tagli e frammentazione hanno avuto sul sistema sanitario nazionale. Le malattie della nostra sanità sono tante. Alcune rimandano a peccati originali del Servizio Sanitario Nazionale fin dal 1978, come l’esclusione delle cure dentarie e la separazione tra medici di base, liberi professionisti privati e sistema sanitario pubblico. Altre sono conseguenza dell’austerità: affidamento ai privati di gran parte dell’assistenza domiciliare e di molti servizi sia nelle residenze sanitarie assistenziali sia negli ospedali; depotenziamento delle terapie intensive e dei servizi di prevenzione; accentramento in poche grandi strutture ospedaliere; proliferazione del project financing e delle convenzioni pubblico-privato; e, ovviamente, tagli alla sanità pubblica con conseguente allungamento delle liste d’attesa ed esplosione della sanità privata.

Per una vita degna serve una nuova sanità pubblica per tutti e tutte, che abolisca le scandalose differenze territoriali che la frammentazione regionale ha riprodotto e ampliato. Serve una cura di comunità che riparta dai servizi pubblici diffusi sul territorio, che sia in grado di dare assistenza ad anziani e persone con disabilità senza scaricarne il costo sulle famiglie o sullo sfruttamento delle lavoratrici domestiche, che non consideri uno spreco mantenere dei posti in terapia intensiva pronti per un’emergenza. Serve un approccio di salute globale, che consideri la promozione della salute al di là del paradigma biomedico/ospedaliero, agendo sui fattori socioeconomici, politici e ambientali, che agiscono sulla nostra salute. 

Serve una nuova attenzione al tema della salute femminile. È necessario stanziare maggiori fondi per i consultori in tutte le regioni, per accompagnare la salute della donna in ogni fase, da quella adolescenziale alla menopausa. I consultori devono tornare ad essere punto di riferimento non solo della donna ma dell’intera  famiglia, in ogni suo momento, dalla nascita di un figlio ai problemi di fertilità, un luogo dove poter trovare sostegno medico e psicologico. È necessario assumere medici non obiettori in ogni struttura pubblica: il diritto alla 194 va garantito in ogni circostanza. Allo stesso modo è necessario che le donne possano svolgere presso gli enti pubblici e gratuitamente ogni analisi medica necessaria durante la gravidanza, senza dover ricorrere al privato per mancanza di posti nel pubblico.

Abolizione del canone d’affitto di mercato

Per vivere una vita degna bisogna impedire a tutti i costi che si possa speculare sul diritto alla casa. La logica del mercato, perseguita tramite le politiche di liberalizzazione degli affitti, ha mostrato tutta la sua inefficacia, causando un aumento vertiginoso dei prezzi delle locazioni. Il canone di mercato ha provocato veri e propri drammi sociali e per questo va abolito, estendendo il canone concordato a ogni forma di locazione abitativa.

Si tratta di un primo passo per far sì che le politiche abitative siano tarate sui bisogni delle fasce sociali più deboli, non sulle pretese della grande rendita immobiliare. Ma questo non basterà. Sappiamo che non vi potrà essere alcuna Ricostruzione senza un grande Piano per l’abitare, per recuperare immobili ed edifici sfitti e metterli a disposizione delle comunità a prezzi calmierati, per aumentare a dismisura la quota di Edilizia Residenziale Pubblica nel nostro paese, largamente al di sotto della media europea, e per ridisegnare lo spazio pubblico a misura di cittadino.

Paghi chi può

Chi pagherà il debito accumulato durante la crisi e gli investimenti necessari a costruire una società giusta e sicura? La crisi del 2008 l’hanno pagata i lavoratori e i cittadini con l’austerità: meno servizi, meno diritti, meno welfare, meno trasferimenti ai comuni, più tasse. Il risultato è stato la stagnazione economica, il calo della domanda interna, la disuguaglianza crescente, l’arricchimento degli speculatori e il consolidamento delle rendite. 

Questa volta le risorse necessarie per ripartire devono venire da chi le ha: da chi guadagna molto, da chi possiede grandi rendite, dalle grandi società che evadono il fisco approfittando dei paradisi fiscali.

Paga chi guadagna di più, con tasse più alte sui più ricchi

In un paese dove c’è sempre meno lavoro, e questo è sempre meno retribuito e di qualità, è uno scandalo che sia il lavoro a sostenere il grosso dell’imposizione fiscale. Se infatti l’IRPEF pesa per circa il 10% del nostro Pil (sopra la media OCSE), oltre l’80% del totale viene pagato da lavoratori e pensionati; meno del 15% del gettito viene da imprenditori, commercianti e professionisti. Per questo è necessario intraprendere una vera, radicale riforma fiscale. Non la flat tax, ma una riforma che sposti il peso delle imposte da chi ha di meno a chi ha di più, e soprattutto dal lavoro alle rendite.

È inutile perdersi nel solito balletto di cifre sulla rimodulazione delle aliquote IRPEF, è invece necessario rimettere al centro la discussione su quali redditi pagano l’IRPEF. Negli ultimi decenni, infatti, sempre più tipologie di redditi (sulle rendite finanziarie, sugli affitti, sui profitti d’impresa, insomma, il tipo di soldi che fanno i ricchi!) sono state sottratte dalla base imponibile dell’IRPEF, per essere assoggettate a regimi speciali, cedolari secche e così via. Nomi diversi, ma nella sostanza vere e proprie flat tax che sottraggono i redditi più importanti alla tassazione progressiva, lasciando sempre a noi il conto da pagare. Quasi sempre questo tipo di redditi paga vicino o addirittura meno del minimo IRPEF (26% per le rendite finanziarie, 21% per gli affitti) e per i più ricchi, che da queste fonti traggono i loro guadagni, è uno sconto sostanzioso. Occorre abolire i regimi speciali di tassazione, restaurando la base imponibile IRPEF così da applicare le imposte progressive sulla totalità dei redditi, e spostare il peso delle tasse da chi lavora a chi comanda.

 

Paga chi possiede di più, con una tassa sui grandi patrimoni e sulle eredità

Dopo anni – decenni! – di crisi e stagnazione, in Italia non solo le rendite contano più dei salari, ma è la ricchezza, il patrimonio ad avere sempre più peso. Chi possiede un patrimonio sostanzioso (magari perché eredita dai genitori una fortuna) non solo ha la strada spianata, ma paga su questa sua fortuna ben poco, quasi niente. Per questo, accanto a una riforma dell’IRPEF, è necessario introdurre forme di tassazione patrimoniale progressiva. Non le tasse patrimoniali che conosciamo già – le tasse piatte applicate solo su un tipo particolare di beni, magari quelli che hanno tutti o quasi, come la prima casa – ma una tassa progressiva applicata sulla totalità del patrimonio (immobiliare ma anche finanziario) di quei pochi milionari ricchi che non avrebbero davvero nessun problema a pagare, anche dopo una pandemia. Certo, a differenza che negli Stati Uniti, in Italia questi milionari non sono abbastanza (anche a causa dell’evasione) da ricavarne cifre stratosferiche: ma anche una patrimoniale che colpisse esclusivamente il 5% delle famiglie più ricche (quelle con un patrimonio superiore a 800 mila euro), facendogli pagare o l’1%, o un’aliquota progressiva tra lo 0.5 e l’1.5%, frutterebbe tra i 4 e i 6 miliardi di euro.

Non solo: un’ulteriore cifra, stimata tra 1,4 e 5,2 miliardi, si potrebbe ottenere riformando in senso progressivo la più odiosa delle ricchezze, quella che viene ereditata, riformando l’imposta di successione, facendo pagare di più a meno persone.

Abbastanza per dare fiato al lavoro, combattendo al contempo le più ingiuste tra le disuguaglianze del nostro paese.

Paga chi delocalizza gli stabilimenti produttivi o ha le sedi nei paradisi fiscali

La libertà di movimento dei capitali e la competizione fra gli Stati per attirarli sono alla base di quella corsa al ribasso nella tassazione e nei diritti del lavoro grazie a cui le grandi imprese e i gruppi multinazionali rubano risorse ai servizi pubblici e impoveriscono i lavoratori. Ogni anno l’Italia perde circa il 20% di tasse da aziende che hanno spostato la loro sede fiscale all’estero. Stiamo parlando di circa 7,5 miliardi all’anno sottratti alla sanità pubblica, alle scuole, ai servizi pubblici essenziali, e che ingrossano il conto in banca dei grandi manager e azionisti delle imprese. La gran parte di questa fuga di denaro avviene dentro l’Unione europea, in Paesi membri come Olanda, Belgio, Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Ungheria. E a pagare il conto di questa rapina legalizzata sono gli stessi derubati, i lavoratori, spremuti da tasse che diventavano sempre più gravose quanto più, contemporaneamente, si snelliscono per le grandi imprese. Un’ascesa dei capitali verso la beatitudine dei paradisi fiscali che è proseguita in parallelo con lo sprofondare dei diritti dei lavoratori nell’inferno delle delocalizzazioni, trainate in gran parte dalla ricerca del minor costo del lavoro. Nel decennio prima della crisi, circa 20.000 posti di lavoro sono andati persi in Italia solo con le delocalizzazioni Fiat.

Porre fine a questo furto sistematico di risorse e di diritti è necessario, urgente e possibile. Nell’immediato bisogna privare le imprese che delocalizzano di ogni prestito o sovvenzione garantita dallo Stato (contrariamente a quanto fatto dal governo per FCA), e richiede la restituzione di tutti i contributi ricevuti dallo Stato. Allo stesso tempo, la definizione della “lista nera” dei paradisi fiscali deve essere associata all’imposizione di sanzioni economiche dirette sia ai governi che alle imprese che ne beneficiano. Serve inoltre una riforma del governo delle imprese, che dia ai lavoratori il potere di sorveglianza e di controllo anche sulle scelte strategiche, come le delocalizzazioni. A livello europeo e internazionale bisogna mettere fine al dogma della piena libertà di movimento dei capitali e rafforzare la cooperazione sul versante dell’armonizzazione della tassazione per le imprese, così da garantire alti livelli occupazionali e una redistribuzione della risorse dal capitale al lavoro.

L’Italia nei prossimi anni dovrà scrivere una storia nuova se vorrà mettersi alle spalle definitivamente anni di precarizzazione, competizione sociale, sacrifici e perdita di diritti. Sarà una sfida difficile e complessa, perché troverà schierati dall’altra parte della barricata tutti coloro che in questi anni hanno visto crescere la loro ricchezza e il loro potere: imprenditori senza scrupoli che privatizzano gli utili e socializzano le perdite, finanzieri abituati a speculare sulla pelle di lavoratori e cittadini, tecnocrati europei che in nome del buon senso continuano a difendere un’architettura dell’Unione costruita a tutela dei forti e a svantaggio dei deboli, politici che costruiscono le proprie fortune sulla guerra tra poveri e poverissimi. 

L’emergenza COVID – che avremmo affrontato con ben altre forze senza l’eredità che loro ci hanno lasciato – non li farà sparire dalla scena pubblica: saranno sempre lì, con i loro giornali, i loro salotti televisivi, le loro scellerate condizionalità europee a dirci che per rialzarci da questa crisi dobbiamo continuare a fare, come prima più di prima, gli stessi sacrifici che abbiamo fatto fin’ora.

A un tale dispiegamento di forze economiche, mediatiche e istituzionali non possiamo che rispondere contrapponendo l’unica risorsa a nostra disposizione: la capacità di immaginare un paese diverso, in nome del quale mobilitare e organizzare le nostre nostre migliori energie.

Il manifesto per la ricostruzione è una proposta pubblica, aperta al confronto e alle idee di tutte e tutti coloro che vorranno confrontarsi, fare rete, dare battaglia assieme. 

Il manifesto per la ricostruzione non è statico e immutabile, anzi. Vogliamo integrarlo, modificarlo e arricchirlo insieme. 

Abbiamo diritto a una vita degna. Conquistiamola insieme.

Vogliamo vivere in una società giusta. Ricostruiamola insieme, diversa.