agroecologia

Se l’agroecologia resta fuori dal Recovery Plan

L’agroecologia deve essere una priorità se si vuole un modello di sviluppo sostenibile nel settore agro-alimentare, in grado di coniugare tutela dell’ambiente, rinascita dei territori e dignità del lavoro. Le misure previste nella bozza del Recovery Plan non intervengono in alcun modo su una riforma del sistema, ma rispondono solo gli interessi legati all’industria del biometano, ignorando tutti i suoi rischi e pericolose implicazioni.


Una riflessione del nostro gruppo ecologia e modelli alternativi di sviluppo sulla questione dell’agroecologia, in occasione della giornata mondiale della terra.

Con un terzo del territorio nazionale dedicato all’agricoltura, l’Italia è fra i paesi europei più vocati a impostare una transizione ecologica proprio a partire dal settore primario. La nostra agricoltura, nonostante profondi cambiamenti in atto, è ancora composta in prevalenza da piccole aziende, un tessuto produttivo che conta quasi un milione di realtà con superficie media intorno ai dieci ettari. 

Eppure, le politiche nazionali e comunitarie stanno sistematicamente smantellando questo patrimonio quasi unico in Europa. L’effetto combinato di una Politica agricola comune (PAC) che da decenni premia le grandi imprese – destinatarie dell’80% degli aiuti comunitari – e di una politica commerciale tutta orientata alla deregolamentazione e liberalizzazione, sta provocando l’espulsione dal mercato di decine di migliaia di piccoli agricoltori ogni anno, incapaci di sostenere la competizione delle importazioni a basso costo o di parare il colpo intercettando una quota sufficiente di sussidi europei. Fra il 2013 e il 2019, secondo il centro di ricerca del Ministero delle Politiche agricole (CREA), in Italia abbiamo perso il 28% delle aziende agricole. Questa visione sta soppiantando inesorabilmente un’agricoltura a carattere familiare e locale con un’agroindustria orientata al mercato della grande distribuzione e alle esportazioni.

Ma tutto ciò ha un altissimo costo sociale ed ecologico. Nel primo caso, la perdita di posti di lavoro è colossale. Allo stesso tempo, l’impoverimento del settore e l’assenza dello Stato sui territori impedisce di aggredire quelle sacche di lavoro grigio, nero e caporalato che interessano 180 mila lavoratori agricoli, in gran parte migranti. 

 Ma la precarietà del lavoro va di pari passo con l’insostenibilità ecologica del comparto. In Italia l’agricoltura è il settore dell’economia che manda in atmosfera più metano (44,7%) e protossido di azoto (59,4%), due gas serra collegati all’allevamento intensivo di animali. Le attività connesse alla zootecnia coprono i due terzi delle emissioni del comparto agricolo, che nel nostro paese valgono 30 milioni di tonnellate di CO2eq.

Non solo: nel nostro paese si spargono 4,5 milioni di tonnellate di fertilizzanti l’anno. Oltre la metà non vengono assorbite e finiscono nelle falde acquifere, causando il soffocamento della vita nei laghi e nei mari. Sono invece 115 mila le tonnellate di pesticidi utilizzate sulle piantagioni nazionali. Siamo il terzo paese europeo per consumo di questi prodotti, oltre metà dei quali solo nel Nord Italia. In media, il quantitativo di principio attivo distribuito per unità di superficie è pari a 6 kg per ettaro, contro una media europea di 4.

Sono dati che raccontano una storia diversa rispetto alla narrativa mainstream sul Made in Italy, ma proprio per questo meritano tutta la nostra attenzione: sono queste le informazioni su cui basarci per capire lo stato di salute del nostro settore primario e immaginare come renderlo compatibile con i sistemi ecologici e i diritti sociali.

In un anno come questo, in cui la pandemia ha stravolto equilibri già molto precari, è più che mai necessario un intervento di politica economica capace di superare la crisi impostando, al contempo, la riconversione ecologica del modello produttivo. Purtroppo, il programma Next Generation EU è inadeguato a svolgere questa funzione: la Conferenza ONU su Commercio e Sviluppo (UNCTAD), da sempre osservatore attento dell’economia mondiale, ne dà un giudizio poco lusinghiero. Nonostante i limiti strutturali del piano europeo, le risorse che verranno da programma NextGenEU possono rappresentare almeno uno strumento in grado di contribuire a risollevare e veicolare i settori più colpiti dalla crisi, verso una transizione ecologica nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori. 

Ad oggi, sta succedendo esattamente l’opposto.

Non ci addentriamo nella galleria degli orrori già ampiamente percorsa dalle nostre critiche e da quelle di tante altre realtà sociali e di attivismo politico. Restiamo sugli aspetti che riguardano l’agricoltura, per dimostrare come il settore sia stato totalmente ignorato dalla politica, che lascia in mano alle organizzazioni di categoria la completa gestione dell’economia agraria e rinuncia a qualunque tentativo di protagonismo nell’impostazione. 

Il “PNRR Conte”, discusso alle camere di recente, destinava alla componente “Agricoltura sostenibile” della cosiddetta “Missione 2 – Rivoluzione verde e transizione ecologica” appena 2,5 miliardi per raggiungere alcuni obiettivi: 

– stipulare più contratti di filiera. La speranza era che questi accordi riuscissero a fissare prezzi capaci di remunerare tutti gli anelli della catena produttiva, non solo l’industria di trasformazione e la grande distribuzione, in cui si concentrano la gran parte dei profitti

– parchi agri-solari, cioè fotovoltaico sui terreni e sugli edifici delle aziende agricole e interventi di efficienza energetica

– logistica, cioè investimenti in sistemi di stoccaggio più moderni per le materie prime agricole e generici riferimenti a “un sistema logistico integrato per i mercati agricoli”

In pratica, nessun intervento di riforma del sistema produttivo, ma solo una manciata di spiccioli per tamponare alcuni problemi strutturali del comparto. Il Parlamento ha chiesto di

stanziare risorse aggiuntive per ulteriori piani di investimento. Nello specifico, in pieno “stile Cingolani”, si punta tutto su nuovi impianti e tecnologie per produrre energia rinnovabile utilizzando scarti agricoli. Anche qui, senza intervenire sulle storture di fondo. Vengono chiesti interventi diretti a promuovere lo sviluppo del biometano agricolo, che si tradurranno in una pletora di nuove centrali alimentate con scarti agricoli e reflui zootecnici. 

 Anche se sembrano parte della soluzione, gli impianti a biometano – che piacciono molto anche a una parte dell’ambientalismo più istituzionale – presentano due problemi. Il primo è che consentono di fatto il greenwashing degli allevamenti intensivi, i quali diventeranno funzionali alla produzione di energia “pulita” e non più un problema etico ed ecologico. Il secondo è che rischiano di scatenare una corsa speculativa alla coltivazione di varietà vegetali che funzionano bene come combustibile per gli impianti a biometano e sottraggono terra all’alimentazione umana..

La bozza di “PNRR Draghi” circolata recentemente in versione inglese, si muove nello stesso solco. Il trionfo del biometano agricolo qui è ancora più evidente: viene candidamente descritto come “soluzione per migliorare la situazione senza ridurre le dimensioni del bestiame”. C’è anche qualche numero: con l’aumento degli impianti a biometano si prevedono di aggiungere 7 miliardi di metri cubi alla produzione attuale degli 800 impianti a biogas, il 70% dei quali – cioè 560 – dovrebbe essere convertita a biometano. Significa, con un calcolo spannometrico, che nei prossimi anni grazie al PNRR sorgeranno altri 2000 centrali di questo tipo. Se con questo intervento si pensa di risolvere l’orrore degli allevamenti intensivi, ci si dimentica che la corsa al biometano non rappresenta una soluzione al problema ecologico, perché nulla può fare per ridurre gli impatti su tutto il resto della filiera, a partire dall’l’elevata dipendenza dal mercato globale di questi sistemi produttivi, basati su importazioni di soia dall’America Latina coltivata al prezzo di una deforestazione selvaggia. Anzi, offrire incentivi che tengono in vita la zootecnia industriale ammantandola di verde, significa indirettamente perpetuare la distruzione di ecosistemi in paesi distanti da noi, dove abbiamo “esternalizzato” la produzione di mangimi.

Un’alternativa però esiste, e va chiesta a gran voce. A questo modello di sviluppo estrattivo, negli anni è si è andato contrapponendo quello più sostenibile del biologico. Gli agricoltori biologici devono rispettare regole severe sull’utilizzo della chimica nella produzione alimentare, privilegiando alternative naturali e utilizzando tecniche di gestione dei suoli che tendano alla loro conservazione. Ma per molti, gli investimenti e i tempi per arrivare a soddisfare gli standard del biologico possono rappresentare uno scoglio. Inoltre, queste pratiche hanno senso sulla piccola e media scala: il biologico industriale iper-meccanizzato non risolve il problema della crisi ecologica, né quello occupazionale. 

In questo quadro si è progressivamente consolidato il dibattito sull’agroecologia, un concetto sotteso all’idea che si può fare agricoltura sostenibile anche senza certificazione biologica. Agroecologia è il nome dato a una vasta gamma di tecniche agricole che cercano di ridurre al minimo l’impatto ambientale dell’agricoltura, ma in maniera più “informale”. Si tratta di utilizzare metodi naturali per la coltivazione, ridurre l’uso di sostanze chimiche artificiali e aumentare la fertilità del suolo attraverso le rotazioni. 

 Da questo punto di vista, gli agroecologi contestano al mondo del bio di sposare sempre più spesso le logiche dell’agricoltura intensiva, fatta di colture da reddito spinte alla massima resa, pur non utilizzando input chimici. L’agroecologia è invece fortemente promossa dai movimenti sociali che si battono per i diritti di un’agricoltura di piccola scala, familiare e biodiversa, caricandola di un significato politico che guarda alla giustizia sociale e ambientale. In quest’ottica, l’agroecologia potrebbe essere intesa come alternativa al modello industriale, rafforzando le colture grazie alla loro diversificazione, anche se a scapito della resa. Al rendimento inferiore, obiettano, corrisponde però un livello più elevato di nutrienti nel cibo, oltre che una maggiore resilienza dei suoli, tutela della biodiversità e capacità di adattamento ai cambiamenti climatici. L’agroecologia, infine, è per natura orientata al mercato locale e alla filiera corta, e risponde all’imperativo di ripensare radicalmente l’economia per riportarla entro la biocapacità del pianeta. Promuovere sistemi alimentari locali, di piccola scala, biodiversi e ad alta intensità di manodopera rappresenta l’unico futuro possibile per la transizione ecologica dell’agricoltura. Finora però, le strategie messe in campo hanno soltanto rafforzato la dipendenza da un sistema di produzione alimentare industriale, finanziarizzato, standardizzato e orientato all’esportazione. Questo modello genera sistematicamente esternalità negative, che rimangono fuori dal prezzo al dettaglio, scaricandosi sul pianeta, sui lavoratori e sulle generazioni future. 

Non possiamo permetterglielo. Non possiamo permettercelo.