bonifica siti inquinati

L’Italia dei veleni: le risorse del recovery plan per la bonifica delle aree contaminate

Mai come in questo ultimo anno il diritto alla salute è stato al centro del dibattito pubblico. Se la ripresa deve corrispondere alla cura, allora curiamo veramente il nostro Paese.
L’occasione del Recovery Plan non può essere persa: chiediamo che il Governo destini le risorse necessarie a bonificare i numerosi siti contaminati che costellano il Paese.

Il Paese delle contaminazioni

A partire dagli ultimi tre decenni una serie di fattori hanno portato a fare luce sull’esistenza di una correlazione tra contaminazioni ambientali e criticità sanitarie. 

La storia del nostro sviluppo industriale è una storia di contaminazioni, possiamo vederlo chiaramente guardando la mappa dei SIN (Siti di Interesse Nazionale per le bonifiche): abbiamo aree che erano poli di sviluppo dell’industria bellica, chimica e del carbone all’inizio del Novecento, territori interessati dallo sviluppo di quella petrolifera a metà tra le due guerre, e infine zone la cui contaminazione deriva dall’aver sviluppato, nel Secondo Dopoguerra, poli industriali legati ai consumi di massa (automobili, elettrodomestici, plastiche). 

Gli impatti di questo sviluppo stiamo cominciando a vederli soltanto adesso, e ne abbiamo ancora una visione di medio termine. Essi si traducono in un dato che si è presentato innanzitutto nella sua empiricità: chi abitava presso zone interessate da contaminazioni ambientali si ammalava di più di chi non ci abitava. Le popolazioni di quei territori l’hanno imparato sulla propria pelle, su quella dei propri cari: lo hanno imparato dalla conta dei morti.

Questo ha portato dei crescenti movimenti di opinione che però troppo a lungo sono rimasti inascoltati.

Nel 2006 è arrivato il riconoscimento dei SIN (art. 252 Testo Unico Ambientale 152/2006): lo Stato ha decretato che quelle aree sono effettivamente contaminate e ne ha disposto la bonifica, la quale è a carico del responsabile della contaminazione inquinante (secondo il principio europeo “Chi inquina paga”) o, qualora quest’ultimo non fosse individuabile, del Ministero dell’Ambiente, insieme ad altri istituti statali e alle agenzie regionali.

Attualmente il nostro territorio nazionale è interessato dalla presenza di 41 SIN (erano 58, poi però alcuni di essi sono stati declassati come SIR – Siti di Interesse Regionale): parliamo di 177.268 ettari di superficie a terra (lo 0,57% del territorio nazionale) e 77,733 ettari di aree marine. La loro presenza riguarda tutte le regioni eccetto il Molise. Nell’elenco troviamo numerosi ex poli industriali: Gela, Priolo, Brindisi, Taranto, Porto Marghera.

Oltre a questi, abbiamo quasi 35.000 SIR (tra potenziali e accertati).

Le conseguenze sanitarie

Con il riconoscimento delle aree contaminate, sono arrivati gli studi epidemiologici che hanno mostrato come all’emergenza ambientale sia associabile un’emergenza socio-sanitaria. Lo studio più autorevole in merito è SENTIERI, Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli  Insediamenti Esposti a Rischio di Inquinamento. Si tratta di un’indagine epidemiologica sulla popolazione residente in 45 territori tra SIN ed ex SIN, pubblicata in cinque edizioni tra il 2010 e il 2019. 

I rapporti Sentieri confermano quello che è sempre stato chiaro ai residenti delle aree di cui stiamo parlando: le popolazioni che vivono a ridosso dei SIN hanno percentuali di mortalità e incidenza tumorale, o di altre malattie, nettamente superiori rispetto alle medie regionali.

I dati sono molti e ci raccontano di un paese in cui da molto tempo ci sono delle micro epidemie, tutte di origine antropica, legate a casermoni abbandonati o industrie ancora in attività, alla gestione illecita dei rifiuti, tanto quanto a cicli legali di smaltimento tutt’altro che virtuosi. 

Le comunità coinvolte in questi processi sono spesso e volentieri le più fragili in partenza: l’edizione del 2011 di SENTIERI ci mostra come il 60% della popolazione residente in un SIN appartenga a fasce sociali svantaggiate. E’ significativo come proprio queste ultime siano state sacrificate allo sviluppo industriale del nostro Paese, pagandone in termini di salute un prezzo elevatissimo.

Perché non bonifichiamo

Secondo i dati del 2018 di ISPRA, i procedimenti di bonifica dei SIN conclusi equivalgono al 15% di quelli complessivi per quanto riguarda i suoli, e al 12% per le acque. Gli interventi di messa in sicurezza o bonifica approvati riguardano appena il 12% per le superfici e il 17% per le acque. 

Il primo report in assoluto sui SIR è del 2021, si intitola “Lo stato delle bonifiche dei siti contaminati in Italia: i dati regionali” e guarda ai dati fino al 31/12/2019, elaborati nel corso del 2020. Il report individua 34.478 SIR di cui 17.682 bonificati o riconosciuti come non realmente contaminati e 16.264 in corso (laddove per “in corso” intendiamo un iter procedurale che può andare dalla semplice notifica alla procedura di bonifica vera e propria, o addirittura all’assenza di informazioni e dati in merito). I numeri relativi alle bonifiche concluse sono così bassi per una serie complessa e variegata di ragioni, primo tra tutti è l’ambito legislativo: pur avendo una legge di riferimento per la bonifica dei siti contaminati (D.lgs. 152/2006 e s.m.i.) molto cautelativa sui possibili impatti sanitari e per molti versi ottima a livello di chiarezza delle azioni e degli iter procedurali, essa si rivela però molto farraginosa a livello applicativo, visto che la sua applicazione spesso guarda più alla correttezza burocratica delle procedure che alla loro efficacia, con il rischio di compromettere le procedure stesse di bonifica.*

La legge al momento non orienta chi dovrà affrontare materialmente i processi di bonifica e l’applicazione pedissequa cui in genere si fa riferimento non tiene conto del fatto che le normative tecniche sono strettamente legate all’evoluzione delle conoscenze e non possono ridursi ad un categorico iter amministrativo.

Questo determina un approccio molto limitato e, tecnicamente, obsoleto. Basterebbe prendere spunto dalle procedure e dai meccanismi utilizzati negli altri paesi con successo e potremmo migliorare i sistemi di gestione delle bonifiche aggiungendo innovazioni che sono ormai certezza tecnica nel resto del mondo da molti anni.

A chi spetta l’onere di innovare?

Chiaramente al pubblico, che deve essere il portatore di competenze e conoscenze e che deve farsi carico di organizzare una struttura amministrativa capace di fare la giusta sintesi tra atti burocratici ed interventi tecnici.
Al contrario invece, da anni a questa parte, nel nostro Paese si decide di lasciare l’onere dell’innovazione al settore privato che per sua natura tende a privilegiare principalmente l’aspetto economico degli interventi guardando primariamente ai profitti.
Servono chiare competenze in ambito di bonifica di siti contaminati all’interno della pubblica amministrazione, sia in termini di figure professionali specifiche sia di strutture.

Al momento ogni ente che ha in carico un percorso di bonifica lo conduce in maniera arbitraria. Serve omogeneità delle azioni nel campo dei siti di bonifica a prescindere da quale ente sia il responsabile del procedimento. Serve un processo univoco e deciso per le azioni in danno, per stabilire chi sia responsabile e debba pagare la bonifica, altro lato decisamente complesso dei procedimenti di bonifica che può costare tempi molto lunghi (spesso si tratta di industrie dismesse, passate di proprietà in proprietà, con eserciti di avvocati, lungaggini tecniche e burocratiche), ma che molto spesso rappresenta la chiave di volta per sbloccare i fondi necessari agli interventi.

Mentre per la sola approvazione di un progetto di bonifica possono trascorrere anche cinque anni (con le conseguenze epidemiologiche che conosciamo), prima e dopo quell’approvazione c’è un lungo elenco di passaggi che può richiedere molto più tempo. 

Proprio a causa delle lungaggini nell’individuare ed attribuire le responsabilità del danno, risulta pressoché impossibile applicare le procedure di emergenza eventualmente previste, che che almeno isolino i siti in attesa della bonifica. Resta tutto a cielo aperto, a rischio e pericolo delle popolazioni.

Un ulteriore elemento in cui difettiamo è sicuramente quello della partecipazione delle popolazioni interessate. Esse risultano spesso ignare sia delle criticità dei propri territori sia delle possibili soluzioni, pur restando le principali vittime in termini di salute delle contaminazioni.

Anche da questo punto di vista abbiamo bisogno di un’apertura all’innovazione da parte delle amministrazioni: in molti paesi sono frequenti le sperimentazioni di processi di programmazione che elaborano modelli che coinvolgono le realtà amministrative, le associazioni ambientaliste, le associazioni di categoria e gli altri attori interessati.

Anche in questo caso la spinta ad innovare deve essere onere principale della pubblica amministrazione.

La nostra proposta

Mai come in questo ultimo anno il diritto alla salute è stato al centro del dibattito pubblico. Se la ripresa deve corrispondere alla cura, allora curiamo veramente il nostro Paese, intervenendo innanzitutto sui residui di un modello passato, che ha lasciato soltanto macerie che non è più possibile ignorare. 

Servono una serie di interventi concreti, e l’occasione del Recovery Plan non può essere persa. L’intero Paese ha bisogno che il Governo Draghi destini le risorse necessarie a rimediare alle storture che fino a questo momento abbiamo prodotto: 

– è prioritario e urgente investire su una riorganizzazione amministrativa atta a velocizzare i processi di bonifica attraverso l’istituzione di una struttura organizzativa interna al Ministero della Transizione Ecologica che si occupi specificamente del tema e sia dotata in maniera autonoma di risorse, personale e competenze;

– serve che questa struttura riveda l’iter burocratico mettendo al primo posto la salute dei cittadini, con interventi preventivi di messa in sicurezza dei territori accertati come contaminati

– tale struttura deve mettere in rete tutti gli attori interessati, a livello nazionale e sui livelli locali, deve favorire lo scambio di buone pratiche e deve sviluppare un dipartimento dedicato alla ricerca e allo sviluppo di tecnologie e processi di gestione. Dipartimenti simili devono essere presenti anche in tutte le ARPA, che al momento conducono percorsi autonomi e arbitrari nella gestione delle contaminazioni.

– serve che lo Stato si faccia carico della bonifica di tutti i siti orfani e dell’avvio di quella dei siti la cui responsabilità è ancora in fase di accertamento: l’epidemiologia non può aspettare i tempi della giurisprudenza;

– serve finanziare progetti di ricerca e innovazione nei dipartimenti universitari interessati, per formare nuove professionalità competenti e aggiornate;

– fondamentale è istituire osservatori ambientali composti dalla società civile, che siano luogo di confronto e informazione sulle criticità, sui processi di bonifica e sui loro sviluppi.

Un altro aspetto da non sottovalutare è l’importanza strategica, dal punto di vista della politica industriale, di un intervento sistematico e diretto dello Stato sul terreno delle bonifiche. Bonificare un territorio, infatti, attiva numerose competenze e necessita di un elevato numero di lavoratori qualificati. Ogni attività di bonifica genera un indotto non indifferente sul territorio di competenza caratterizzandosi di fatto come un moltiplicatore di investimenti e di occupazione. 

Partendo dal presupposto che è ineludibile un massiccio investimento su questo tema per restituire le stesse opportunità di vita a tutti i cittadini, riteniamo che su questo terreno si debba configurare un intervento diretto dello Stato nella creazione di un attore nazionale di bonifica collegato ad un massiccio investimento in ricerca e sviluppo in grado di portare il nostro Paese all’eccellenza nel campo a livello Europeo

Un’ industria nazionale delle bonifiche potrebbe alimentarsi economicamente attraverso il percorso di ripristino dei territori SIN e SIR costruendosi così un know-how di esperienze e competenze da reinvestire in tutta Europa, generando posti di lavoro qualificato e un investimento importante in università, ricerca e sviluppo.

Per un’operazione di questo tipo servono ingenti risorse e mai come in questo momento esse sono disponibili: sprecare questa occasione potrebbe voler dire non averne altre e condannare quei territori ad aspettare ancora per decenni prima che le criticità ambientali siano sanate, con tutte le conseguenze sanitarie del caso.

La priorità deve essere il diritto alla salute della popolazione tutta e di quelle popolazioni in particolare: parte dei fondi di cui stiamo discutendo sono prestiti che dovremo essere noi a pagare, con il nostro futuro. Che almeno servano a salvarci la vita.

*Un esempio per tutti è l’utilizzo del barrieramento idraulico (pump&treat) in tutte le occasioni possibili, solo per raggiungere il punto di conformità a limite del sito contaminato che viene definito per legge. La logica del punto di conformità non ha niente a che vedere con le azioni tecniche di intervento ma ha un valore puramente burocratico/amministrativo, e per la maggior parte dei casi rappresenta l’unico intervento che viene posto in essere nei siti contaminati. Si spendono ingenti risorse per perimetrare la contaminazione e non si arriva mai ad intervenire sulle sorgenti di tale contaminazione.

Facciamo un esempio che spiega molto bene questa cecità amministrativa: poniamo il caso di trovarci in una situazione di acque contaminate da PCE (tetracloroetilene) dieci volte superiore ai limiti di legge. In genere in queste situazioni viene utilizzato un sistema di barrieramento idraulico che pompa 10 metri cubi al giorno al costo di circa due euro al metro cubo. Se noi teniamo attivo questo barrieramento per 10 anni, riusciremo ad eliminare orientativamente 400 grammi di PCE a fronte di un prelievo di acqua sotterranea di 36 milioni di metri cubi ed una spesa che si aggira intorno agli 80 milioni di euro. 80 milioni di euro per 400 grammi di PCE in 10 anni. Capiamo quindi che questa operazione ha poco senso pratico e risulta essere una vera e propria perdita di tempo e risorse che potrebbero essere spese molto meglio, ed è proprio questo che definiamo cecità amministrativa.
Negli Stati Uniti la questione è già stata affrontata: su una base di analisi di 2357 siti contaminati si è osservato il trend delle tecnologie utilizzate negli anni dal 1982 in poi. I risultati mostrano come il barrieramento idraulico fosse la tecnica maggiormente utilizzata dal 1982 al 1991 per poi essere abbandonata (per troppi costi e pochi risultati). Attualmente il pump&treat rappresenta negli Stati Uniti il 10% degli interventi, mentre parallelamente in Italia la stessa tecnica è utilizzata nell’80% dei siti di bonifica.