L’epurazione di genere. Un racconto distopico nei dati Istat

Le crisi non sono neutre. Si sono incaricati di ricordarlo i dati shock dell’ISTAT sull’occupazione: 101.000 occupati in meno a dicembre di cui 99.000 donne; 444.000 occupati in meno nel 2020 di cui il 70% donne.

A leggerli sembrano un errore, troppo clamorosi. Oppure una sistematica epurazione di genere, la deriva horror di un regime misogino uscito dalla fantasia di Margaret Atwood.

In un certo senso è così, dato che la banalità del male ci vuole un po’ per riconoscerla, ma striscia da sempre nella nostra organizzazione sociale.

Ciò che osserviamo anche in questi dati è che in contesti di minore disponibilità di risorse le diseguaglianze si amplificano con impennate verticali e si producono divari nuovi, ma sempre in strettamente connessione con la struttura sociale precedente.

La struttura sociale precedente, appunto, quella dell’Italia 2019, funzionava così: le donne occupate meno degli uomini (il tasso di occupazione per le donne era del 50% a fronte del 69% per gli uomini); più frequentemente degli uomini inattive (il tasso di attività delle donne era 56% a fronte del 75% per gli uomini); quando lavorano sono occupate in servizi a basso valore aggiunto; hanno contratti precari o part time; hanno salari inferiori (nel 2017 i redditi complessivi guadagnati dalle donne sono stati in media del 25% inferiori a quelli degli uomini -15.373 euro rispetto a 20.453 euro- secondo quanto riportato da Linda Laura Sabbadini, direttore della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche dell’Istat, in audizione alla Commissione Lavoro della Camera).

È sempre utile ricordare che questi dati non hanno a che vedere con il titolo di studio. A parità di livello di istruzione le donne occupano posizioni di minor prestigio e percepiscono salari più bassi. Ma non ovunque allo stesso modo. Per esempio nelle periferie di una grande città come Roma questo meccanismo si amplifica così tanto che, come mostrato da #Mapparoma. Le mappe della disuguaglianza, anche in presenza di titoli di studio più elevati le donne lavorano meno degli uomini. A conferma che contesti e circostanze con minori opportunità amplificano i divari. Come se vivessero una crisi permanente.

Le politiche di risposta alla crisi, pur molto diverse da quelle che abbiamo conosciuto nel 2008, si sono concentrate nella protezione dei posti di lavoro attraverso il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione in deroga. Strumenti di cui si sono potuti avvalere lavoratrici e lavoratori subordinati a tempo indeterminato. Per gli altri e soprattutto le altre sono rimasti gli ammortizzatori sociali ordinari e alcuni provvedimenti aggiuntivi, come quelli rivolti alle partite iva.

Prevedibilmente dunque la crisi sta manifestando i suoi primi e più violenti effetti nei settori meno protetti dalle politiche pubbliche: il lavoro precario, quello autonomo e il settore dei servizi dove abbonda il lavoro precario. Ambiti come già detto a prevalenza femminile.

Dopo due mesi di crisi politica incomprensibile, in cui si sbandieravano gigantesche questioni politiche, ma sono emerse solo questioni di potere, sarebbe un filo auspicabile che si affrontasse, insieme alle altre squadernate dalla pandemia, questa emergenza sociale.

C’è bisogno di un’offensiva culturale, certamente, ma c’è bisogno anche di cambiamenti materiali. Ne nomino alcuni, non esaustivi, ma mirati e al contempo allusivi ad una nuova organizzazione del vivere sociale per quanto riguarda i carichi di cura, la parità tra i generi e il rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro.

Asili Nido. Nel nostro paese sono pochi, ancora al di sotto del parametro europeo del 33%. Sono costosi anche per i redditi medi e medio bassi. Quelli pubblici prevedono spesso orari incompatibili con il tempo di lavoro dei genitori. Ne deriva che, in un paese in cui i carichi di cura sono ancora fortemente sperequati, la maternità porta spesso con sé il ritiro dal mercato del lavoro. Serve aumentarne l’offerta; renderli progressivamente gratuiti considerandoli per ciò che effettivamente rappresentano: un fondamentale momento di crescita, il più potente strumento di contrasto alle diseguaglianze (che si combattono nei primi anni di vita), un volano per l’occupazione delle donne.

Lotta al lavoro precario, riduzione del tempo di lavoro, parità salariale. Un pacchetto di interventi mercatolavoristici per la qualità del lavoro delle donne è per forza di cose per la qualità del lavoro di tutti e di tutte a partire dalla riduzione del tempo di lavoro (per redistribuire il lavoro tra chi ne ha troppo e chi per niente) e dal contrasto al lavoro precario. A queste strategie serve però affiancare una misura più mirata per la parità salariale: non è solo una legge che consentirà di raggiungere la parità di trattamento, ma una legge aiuta. Quella presentata alla Camera dei Deputati in questa legislatura a prima firma Chiara Gribaudo prevede più controlli, report anche per le aziende sotto i 100 dipendenti e un sistema di bollini di qualità per le aziende virtuose.

Congedo parentale obbligatorio anche per gli uomini in linea con altre esperienze europee. Senza pretendere di fare come la Svezia in cui sono previsti 8 mesi di congedo retribuito, o come la Finlandia, dove recentemente la premier Sanna Marin ha parificato la durata del congedo per madri e padri portandolo fino a oltre 6 mesi per entrambi, ci sono altre esperienze (Germania, Portogallo) che danno il segno di una responsabilità condivisa nella cura dei figli. Non è una cosa da poco perché riequilibrare la vita privata consente di introdurre parità anche in quella pubblica.

Senza pretesa di esaustività, ma con un certo sconcerto per il modesto spettacolo che la politica sta dando su input di Matteo Renzi, chi avverta la dolorosa frattura tra emergenze della vita di tutte e tutti noi e le dinamiche di palazzo deve mettere sul piatto le urgenze. Anche schiaffeggiando la politica quando se lo merita. E accidenti se lo merita.

Claudia Pratelli