Deposito nazionale rifiuti nucleari, pubblicata la mappa dei siti potenziali. De Sanctis: difficile fidarsi, fare accordi anche con altri paesi.

Intervista di Gabriele Caforio

Dopo anni di attesa, la Sogin, partecipata dello Stato che ha in mano l’affaire nucleare italiano, ha pubblicato la lista dei potenziali siti Italiani idonei ad accogliere la costruzione di un deposito nazionale di tutti i rifiuti radioattivi del paese.

La procedura di individuazione è pubblica (consultabile su depositonazionale.it), ora ci sono circa due mesi di tempo per la presentazione delle osservazioni da parte dei portatori di interesse.

Le proteste di molti territori interessati e di una parte del mondo ambientalista non si sono fatte attendere. Il problema dei rifiuti radioattivi in Italia non è nuovo, ce lo trasciniamo da decenni e lo nascondiamo dentro siti e capannoni “temporanei”. Dopo due referendum contro il nucleare, la soluzione avremmo già dovuto trovarla e invece siamo solo ai blocchi di partenza. Ma il percorso, in realtà, è sconosciuto ai più. Proviamo a conoscerlo a tutto tondo con Augusto De Sanctis, ambientalista e attivista del Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua.

I rifiuti radioattivi in Italia, di varie tipologie, ci sono già. Sono sparsi in una ventina di siti sul territorio nazionale. Di che rifiuti parliamo, come sono stoccati e quanto si può stare tranquilli?

Parliamo di circa 70 mila metri cubi di rifiuti delle tre principali categorie: bassissima, bassa o alta attività. Le scorie provengono da 4 settori principali, ognuno dei quali può produrre scorie di varie tipologie, a seconda di quali siano le sorgenti o i materiali. 

Partiamo dai rifiuti provenienti dalle vecchie centrali italiane, ancora in via di smantellamento nonostante siano passati diversi decenni dall’abbandono del nucleare nel nostro paese. Parte del materiale è all’estero, diverse barre di uranio sono state spedite per essere riprocessate e torneranno nel nostro Paese tra qualche anno. 

Ci sono poi i resti dei reattori e tutto il materiale irraggiato dalle centrali nucleari: una parte abbastanza consistente di questi materiali è ad alta attività e quindi più critici dal punto di vista gestionale. 

Altro materiale è costituito da quello proveniente dalla ricerca medica e dall’attività diagnostica (radiologia, radioterapia, ecc), in genere  a bassa o bassissima attività. Ci sono inoltre le scorie prodotte dall’attività industriale (monitoraggi radiografici sulle saldature). Infine abbiamo i rifiuti dell’attività scientifica, ad esempio quella dei laboratori di fisica, dove esistono piccoli reattori usati a scopo di ricerca. 

Tutti questi materiali sono stoccati in poco più di 20 siti sparsi per l’Italia, siti che purtroppo hanno già conosciuto molte criticità, anche recenti: il sito di  Saluggia nel 1994 ha rischiato di andare completamente sott’acqua per un’alluvione e si è rischiato un disastro di dimensioni internazionali. Altri siti come quello dell’Ex Cemerad di Taranto o Rotondella hanno avuto o continuano ad avere dei problemi. Doveva trattarsi di stoccaggi temporanei, ma poi, come vediamo, i decenni passano…

Molti di questi siti non soddisfano già oggi alcuni dei criteri necessari ad ospitare il deposito nazionale, sono vicini a centri urbani o ad infrastrutture di comunicazione oppure sono in aree sismiche o a forte rischio idrogeologico. Questo la dice lunga sullo stato di criticità attuale, una cosa è certa: vanno superati.

La delega a Sogin su questa procedura è pressoché totale. La procedura di avviso pubblico prevede la possibilità della consultazione pubblica dei soggetti portatori di interesse sulla scelta del sito, sicuramente non è un lavoro per chiunque ma solo per gli addetti. Occorrono tempo e conoscenze specialistiche. Cosa ne pensi?

Il problema, in questa procedura, è che servirebbe un soggetto terzo. La Sogin ha troppi ruoli in questa vicenda. È infatti  la società dello Stato italiano responsabile dello smantellamento delle nostre centrali nucleari e della gestione dei rifiuti radioattivi;  ha pubblicato i documenti in qualità di soggetto proponente, peccato però che chi volesse rivolgere delle osservazioni potrebbe farlo rivolgendosi solo alla stessa Società. Servirebbe una specie di arbitro: non è giusto che sia una società per azioni, con un suo interesse diretto, a gestire questa partita. Sarebbe più giusto che Sogin rimanesse come proponente e che ad assumersi il ruolo di gestori del processo partecipativo fossero almeno i ministeri interessati. Su questo, oltre che sul prolungamento dei tempi di consultazione, alcune associazioni stanno già chiedendo una modifica legislativa.

Sui tempi in particolare, in questo momento sono previsti 60 giorni di tempo per le osservazioni tecniche, ma parliamo di documenti molto corposi da analizzare. Oltre a quelli del sito web, alcuni documenti sono consultabili solo fisicamente in alcuni siti messi a disposizione da Sogin: come immaginerete, giorni e giorni di lavoro. Figuriamoci per un cittadino normale che si ritrova la sua casa in mezzo al territorio designato e che vuole dire la propria, o gli stessi enti locali che devono dare mandato a tecnici specialistici per la valutazione. Questo è un aspetto centrale perché 60 giorni è un tempo che solitamente si dà per altre procedure, meno rilevanti rispetto ad un deposito nazionale di rifiuti radioattivi. Un prolungamento dei termini è auspicabile: la mappa dei siti oggi potenziali era già disponibile da alcuni anni e non era mai stata pubblicata, per cui ora si potrebbe aspettare anche qualche giorno in più. 

È bene che più occhi vedano quelle carte. Conosco alcune delle aree potenzialmente individuabili e faccio fatica a vederle idonee per un deposito di questo tipo. Per esempio, Pienza, gioiello del Rinascimento, Matera, sito Unesco, solo per citarne alcuni. Stupisce anche che si propongano alcuni siti che si vede già che non possono andare avanti e magari saranno esclusi in un momento successivo. Si nota che, per ora, il procedimento con cui si è giunti a questa mappa (67 aree individuate) è abbastanza “matematico”.

Alcune voci del mondo ambientalista hanno posto dei dubbi circa la strategia di individuare un unico deposito nazionale anziché più siti. Quali potrebbero essere i pro e i contro di una scelta piuttosto che un’altra?

Tra le varie associazioni, Greenpeace è stata quella più critica. Una parte della loro critica credo  sia molto condivisibile quando dicono non sia stato offerto un ventaglio di possibilità più ampio per la destinazione finale dei rifiuti. Sottolineo fortemente che la direttiva europea del 2011 (n. 70 del 19 luglio 2011), che impone gli obblighi di gestione dei rifiuti radioattivi ai singoli stati membri, non obbliga un paese ad avere il deposito nel proprio territorio, rende anzi possibile anche fare accordi con altri paesi. Non si tratta di essere “Nimby”: i rifiuti radioattivi hanno un livello di pericolosità che travalica i confini di un singolo territorio. Se ragionassimo su scala europea, sicuramente il nostro paese risulterebbe essere quello con la maggiore vulnerabilità per rischi ambientali (vulcanico, idrogeologico e sismico); siamo inoltre un paese ad altissima densità di popolazione rispetto ad altri e, infine, produciamo relativamente pochi rifiuti radioattivi rispetto ad altri paesi che hanno le centrali nucleari ancora attive (Francia, Spagna, Germania ad esempio). 

L’aspetto principale della critica di Greenpeace parte dal fatto che il deposito unico dovrebbe essere permanente per i rifiuti a bassa e bassissima attività e temporaneo per quelli ad alta attività e secondo l’associazione è sbagliato mischiare le due cose perché tale scelta mina alla base il percorso tecnico di selezione delle aree idonee. Le strategie per la gestione di rifiuti diversi non possono essere uguali, servirebbe un deposito geologico, ovvero sottoterra, per i rifiuti ad alta attività (ad oggi solo la Finlandia sta facendo un deposito permanente sotterraneo).

C’è un altro aspetto che preoccupa. Ricordiamoci che in Italia ci sono voluti 2 referendum per uscire dal nucleare ma magari, in futuro, potrebbe esserci la volontà di introdurlo nuovamente per la necessità, ad esempio, di slegarsi dalle fonti fossili. Ecco allora che parlare di un deposito temporaneo crea sospetti: cosa ne sarà un domani di questa temporaneità? Non si capisce bene quale possa essere il retropensiero e, in certi casi, a pensare male ogni tanto ci si azzecca!

Quindi, se già oggi abbiamo problemi con più siti e siamo in difficoltà per sceglierne uno, figuriamoci se dovessimo replicare questa procedura. Aumenterebbero i costi e probabilmente sarebbe poco percorribile. Dall’altro lato un sito con tutti e due i livelli di scoria crea altri problemi, da qui l’utilità di privilegiare degli accordi internazionali per le scorie ad alta pericolosità.

Sogin prospetta una contropartita e un ritorno per il territorio che ospiterà i rifiuti, nel breve periodo in termini lavorativi per la costruzione del deposito stesso, nel lungo periodo per lo sviluppo di un parco tecnologico annesso. Quanto sono realistiche queste prospettive e quanto ripagano un territorio?

Parco tecnologico? Sembra più una promessa utile a indorare la pillola. Le ricadute economiche sicuramente ci sarebbero ma non credo che sarebbero molto rilevanti visto che le figure che lavorerebbero nel deposito sarebbero estremamente specializzate, quindi nessuna ricaduta lavorativa di ampio respiro. Sicuramente ci sarebbero compensazioni di decine di milioni di euro, ma guardando al passato la credibilità dei proponenti qualche dubbio lo pone. I siti che già oggi ospitano vecchie centrali nucleari e siti di stoccaggio ancora attendono le compensazioni promesse. Si sconta il fatto che i decisori e la stessa Sogin sono stati oggetto di scandali a ripetizione. Come si può chiedere adesso la fiducia ai cittadini se già solo la pubblicazione della carta è rimasta 5 anni ferma?

La pubblicazione della mappa dei siti potenzialmente idonei ha sollevato subito diverse proteste dei territori candidati. Cosa possiamo aspettarci e cosa ci auguriamo?

Le reazioni sono immediate perché in Italia il dibattito si fa su tante cose e su questo tema si è sempre evitato di farlo, quindi i cittadini ne hanno poca conoscenza. Si pensi che già nel 2015, sul mio blog, scrivevo che sarebbe uscita a breve la mappa, giusto per dire che anche io mi ero fidato un po’ troppo dei decisori. La stampa ogni tanto pubblica qualche articolo ma non si è mai fatto ad esempio un dibattito che rendesse cittadini e cittadine consapevoli del fatto che abbiamo già più di 20 siti di stoccaggio sparsi per il Paese, di cui alcuni problematici. 

Ora, dall’altro lato, ritengo che sia anche giusto che ci sia una mobilitazione. Ne va del futuro di quei territori, della loro vocazione. Ad esempio, non è banale se un territorio che aveva fatto dell’agricoltura di qualità la sua vocazione, da un giorno all’altro si trova a sacrificare 150 ettari. Penso a chi in quelle aree ha oggi scommesso sul turismo, sulle eccellenze vinicole o sulla coltura degli ulivi e ora si trova di fronte a questa idea. 

Un deposito nazionale è un impianto importante che finisce per dare un altro assetto ai territori che lo ospiteranno, lo dobbiamo dire con onestà. 

È grave il fatto di sottacere o mettere in secondo piano che nel deposito ci andranno anche i rifiuti ad alta attività, che non sono proprio pochi e sono quasi un terzo del totale. Perchè dirlo a caratteri piccoli, tra le parentesi e non chiaramente? 

Ci sono delle reazioni forti anche perché l’italia è densamente abitata, con attività imprenditoriali diffuse e con beni culturali anch’essi molto diffusi, valori ambientali naturalistici e storici. 

Forse l’augurio dovrebbe essere che mentre noi discutiamo, si discuta anche della possibilità prevista dalla direttiva europea di andare a discutere con altri paesi.

Perché se facessimo il discorso su scala europea, usando gli stessi criteri che Sogin ha usato in Italia per individuare 67 siti, in Europa se ne troverebbero 6700! Ci sono aree in nord Europa più stabili geologicamente e disabitate. Non ci vedrei niente di male e cambiare la visione per rendersi conto che l’Italia è il posto peggiore e in caso di problemi ne risentirebbe tutta l’Europa.

Abbiamo paesi europei, peraltro frontalieri, con centrali nucleari attive a pochissima distanza dai nostri confini, quindi già compartecipiamo ai loro rischi. In un clima di reale collaborazione e condivisione di scelte non è detto che noi dobbiamo tenerci sia i nostri rifiuti che i rischi di centrali nucleari altrui alle nostre porte. È una cosa che non vedrei problematica, è un discorso di compensazione di un rischio che già corriamo per scelte di altri.