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L’inflazione, la guerra, i salari: una enorme questione sociale

Non tutti pagheranno la crisi allo stesso modo. Quella che sembra una frase fatta, uno slogan buono per tutte le stagioni, fotografa una situazione oggettiva, che emerge dai freddi numeri dell’economia italiana.

La persistenza del conflitto tra Russia e Ucraina e il rischio concreto di un allargamento oltre i confini dell’Europa orientale solleva nuove preoccupazioni sulle ricadute dell’aumento vertiginoso dei prezzi sui redditi da lavoro.

Senza voler cadere in una rappresentazione apocalittica della crisi in corso, siamo dinnanzi alla precipitazione di un quadro già segnato da elementi di forte instabilità, riflesse nelle tensioni inflazionistiche che si sono scatenate in Europa e in America.

In Italia, nel mese di febbraio, l’inflazione tendenziale si attesta al 5,7 % (prendendo come riferimento Febbraio 2021) e  secondo le stime della Banca d’Italia –  precedenti il conflitto in corso e che rischiano dunque di sottostimare il fenomeno – sarà superiore al 3 % nel 2022 e dovrebbe approssimarsi su valori di poco inferiori al 2 % nel 2023 e 2024.

Le vittime sacrificali di questa crescita del livello dei prezzi saranno ancora una volta le classi lavoratrici, in una spirale di aggravamento della questione salariale che sembra non avere fine.

Ed è proprio in questa lunga discesa dei redditi da lavoro che si caratterizza il caso italiano.

Per non andare troppo lontano nel tempo è utile richiamare per sommi capi quello che è accaduto nel decennio 2010/2020.

Secondo i dati Istat – che misurano l’andamento delle retribuzioni contrattuali  ovvero l’incidenza della contrattazione collettiva sui salari – le retribuzioni orarie sono cresciute negli ultimi 10 anni in media su valori inferiori all’ 1% all’anno. Se il focus viene spostato agli ultimi 5 anni, la dinamica dei salari sul totale dell’economia segna un incremento (medio) inferiore all’ 1%, riuscendo a restare indietro alla bassa inflazione (ferma all’1 %). 

Quando leggiamo questi dati e le ricadute complessive sul livello dei redditi da lavoro dobbiamo avere chiaro in mente, che non stiamo descrivendo semplicemente la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici “poveri”, non stiamo tratteggiando il profilo di una porzione, seppur in aumento, del mondo del lavoro.  Stiamo parlando della maggioranza della classe lavoratrice, cioè di quell’ampia fetta di lavoro dipendente coperto dalla contrattazione collettiva, che dovrebbe beneficiare dei rinnovi contrattuali e che vede la propria busta paga restare pressoché identica nel tempo. 

Un tempo, quello trascorso, segnato da un’inflazione impercettibile, addirittura negativa in alcuni anni 2014/2016/2020, ovvero per dirla in maniera più chiara, un decennio di deflazione; eppure un decennio in cui il potere d’acquisto reale dei salari è rimasto fermo o addirittura è diminuito. 

Tornando all’oggi, l’aumento del prezzo delle materie prime (gas, petrolio, alluminio, ma anche grano e cereali) con valori che sono raddoppiati e triplicati in pochi mesi implica una crescita vertiginosa dei costi fissi delle famiglie (bollette del gas ed elettricità) e della spesa per beni di consumo (in particolare i beni alimentari). L’Unione nazionale dei Consumatori stima un aumento medio di 1200 euro annui delle spese familiari. Anche in questo caso la stima è probabilmente inferiore alla dinamica reale, perché non tiene conto delle implicazioni dell’escalation bellica sulle economie europee. L’Istat registrava già nel mese di Dicembre 2021 una crescita dell’indice dei prezzi  (+ 3,9 % su base annua)  più di 3 volte superiore a quella delle retribuzioni di un operaio nel settore metalmeccanico  ed addirittura di 6 volte superiore alle retribuzione di un lavoratore nel settore dei servizi. 

Questo quadro è destinato a peggiorare inesorabilmente per tre ragioni, che sono tra loro intrecciate.

La prima è legata alla permanenza di contratti scaduti e in attesa di rinnovo. Parliamo di contratti che occupano più del 50 % dei lavoratori e delle lavoratrici, tra cui  i principali contratti del settore dei servizi: Terziario e Commercio e Turismo e Alberghiero. I lavoratori e le lavoratrici di questi comparti vedono le proprie retribuzioni ferme dal 2018/2019. All’orizzonte non si vedono passi in avanti sul fronte del rinnovo dei contratti, anzi la percezione è che le ripercussioni della crisi pandemica sulle attività economiche di questi settori venga utilizzata dalle associazioni imprenditoriali per ritardare i rinnovi contrattuali o addirittura per imporre un blocco degli aumenti contrattuali. Inoltre, proprio le imprese dei settori appena citati potrebbero alimentare l’inflazione, in assenza di politiche di controllo dei prezzi, per garantire margini di profitto a danno dei salari. 

La seconda ragione riguarda gli stessi contratti collettivi rinnovati. L’esempio principale è il contratto dei metalmeccanici, rinnovato all’inizio del 2021. L’incremento dei minimi tabellari è già ampiamente eroso dall’aumento dei prezzi. Una questione che chiama in causa il modello contrattuale e i parametri utilizzati in fase di rinnovo. Infatti, dal 2009 l’unità di misura del livello dei prezzi è l’indice IPCA (Indice armonizzato dei prezzi al Consumo) depurato dal costo dei beni energetici importati. Questa formula, apparentemente vaga, segnala che l’aumento dei costi delle materie prime che l’Italia importa dall’estero (gas, petrolio, alluminio, ecc..) non vengono conteggiati per misurare l’inflazione reale. Dunque i rinnovi contrattuali non consentono un recupero dei salari rispetto all’andamento effettivo dei prezzi, ma consentono solo un’ indicizzazione minima e irrilevante ai fini della salvaguardia del potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici (tenuto conto che le tensioni inflazionistiche sono in larga parte esogene, cioè derivante dall’aumento dei prezzi delle materie prime).

Questo ci porta al terzo punto, ovvero il disinteresse delle forze politiche che sostengono il governo a promuovere iniziative volte ad un riforma del modello contrattuale, che si sostanzi nell’adeguamento dei salari al costo della vita e in una politica industriale votata all’investimento sull’economia verde. Anche in questo caso l’esecutivo sembra più sensibile alle richieste di Confindustria e del sistema delle imprese, che richiedono aiuti per fronteggiare l’aumento dei prezzi, ma che non sono disposte ad accettare come contropartita il rinnovo dei contratti e l’indicizzazione dei salari al costo della vita. La strategia proposta sembra ricalcare il metodo utilizzato durante la crisi pandemica. In quel caso, il governo scelse di scaricare le responsabilità in materia di sicurezza e di salute dei lavoratori alle parti sociali, limitandosi a fornire aiuti economici alle imprese. Dietro la retorica sulla concertazione, sul dialogo tra le parti sociali, si cela un atteggiamento volto a contrarre lo spazio dell’iniziativa politica, lasciando mano libera alle imprese nel dettare le regole del gioco e ripagandole con lauti incentivi economici.

La stessa discussione sul salario minimo riflette questo disallineamento tra retorica e realtà, evocato  in occasione di eventi tragici e notiziabili per poi scomparire come neve al sole, quando si tratta di trasformare l’indignazione esibita in un’iniziativa politica concreta.

Tutte tracce di un canovaccio che conosciamo da troppo tempo e a cui è diventato necessario rispondere, tessendo alleanze e costruendo spazi di mobilitazione, discutendo e organizzandoci, con un obiettivo chiaro: restituire alla politica la voce di un vasto universo di uomini e donne, che alla politica hanno smesso di credere. 

Simone Fana