centrali a carbone

Carbone e gas sono il problema, non la soluzione

Se la prima emergenza a cui dare risposta in questo momento resta quella dei civili ucraini in fuga di fronte ai carri armati di Putin, la guerra in Ucraina scatena nel nostro Paese una nuova impennata del prezzo dell’energia che qui in Italia avrá effetti devastanti per famiglie e lavoratori, già colpiti nell’ultimo mese da un aumento drastico delle bollette che grava sui salari fra i più bassi d’Europa. Di fronte a questo scenario, da più parti dentro e fuori il governo si tornano a invocare le estrazioni di gas fossile e la riapertura delle centrali a carbone come le sole soluzioni possibili per far fronte alla crisi energetica. 

Nel corso dell’informativa di oggi alla Camera sulla guerra in Ucraina, il premier Draghi ha affermato che “forse sarà necessaria la riapertura delle centrali a carbone”, come soluzione “per colmare eventuali mancanze nell’immediato” al fabbisogno energetico del Paese. 

Ma davvero il carbone, la fonte fossile più inquinante del pianeta, può rappresentare una soluzione?

Attualmente In Italia sono ancora otto le centrali a carbone in funzione, che producono intorno al 10% dell’elettricità usata in Italia. Secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, queste centrali devono essere dismesse entro il 2025 o essere riconvertite in centrali a gas naturale. A fine 2021, sono stati dismessi in Italia circa 1.900 MW di energia elettrica prodotta dal carbone.

Ma da dove viene il carbone che viene bruciato nelle centrali italiane? Nella stragrande maggioranza dall’estero! Come si legge sul sito di Assocarboni: «l’Italia importa via mare circa il 90% del proprio fabbisogno di carbone, su una flotta italiana di circa 60 imbarcazioni che garantiscono una capacità di carico complessiva di oltre 4,6 milioni di tonnellate». In Italia esiste una sola miniera di carbone attiva, in Sardegna, nel Sulcis Iglesiente, con una capacità produttiva marginale rispetto al fabbisogno nazionale, ma il cui impatto in termini ambientali e sanitari per la cittadinanza è stato e continua ad essere drammatico.

 Riaprire le centrali a carbone quindi non risolverebbe minimamente la questione di una maggiore autonomia energetica del Paese, che anzi finirebbe per intensificare la propria dipendenza dall’estero. In compenso si straccerebbero del tutto gli impegni per una decarbonizzazione del Paese, fra cui quelli sottoscritti alla COP 26 di Glasgow, dirottando risorse essenziali ancora nelle fonti fossili e compromettendo in maniera irreversibile le prospettive di una transizione ecologica.

 Il governo Draghi prosegue così la sua linea ideologica e fallimentare basata sullo sfruttamento delle fonti fossili e sugli interessi di ENI e SNAM, ben espressi con il recente piano per la Transizione Energetica Sostenibile. Si punta infatti a intensificare l’estrazione di gas naturale dai (pochi) pozzi esistenti in Italia, per un volume complessivo di 2 miliardi di metri cubi: una cifra irrisoria e del tutto insufficiente ad affrontare la crisi energetica, se consideriamo i consumi annui del Paese, pari a 76 miliardi di metri cubi nel 2021. Investire sul gas fossile significa quindi, allo stesso modo, vincolare sempre di piú l’Italia alle forniture estere, di cui la Russia rappresenta il maggiore esportatore, e a un modello di sviluppo insostenibile.

 La crisi energetica in cui ci troviamo non è causata dalla transizione ecologia. Al contrario, è l’estrema dipendenza italiana dalle fonti fossili, carbone e gas, e quindi dai fornitori esteri, la chiave dell’estrema vulnerabilità del nostro sistema energetico, e di riflesso del nostro intero sistema economico, così come dei livelli di inquinamento di cui il nostro Paese é responsabile. Quello che oggi paghiamo è semmai l’enorme e continuo ritardo negli investimenti nelle rinnovabili: le sole fonti che avrebbero potuto, e che possono nel futuro, garantire una maggiore autonomia energetica per il Paese. E insieme quella transizione ecologica e sociale da cui dipende il nostro futuro.