Alzare la testa e organizzarsi in questa Italia pronta a implodere.

Un paese sull’orlo d’una crisi di nervi

L’Italia è sul punto di rottura? Oltre che da un punto di vista sanitario, sociale ed economico il nostro Paese rischia di crollare da un punto di vista psicologico.

Insieme al virus dilaga il malcontento.

Non c’è però solo la rabbia, ci sono anche molta angoscia, ansia e frustrazione.

Il carico di stress emotivo, di angoscia individuale e collettiva, sommati alla enorme difficoltà economica di milioni di persone rende l’Italia fortemente instabile.

Su questa instabilità soffiano forte le destre di sciacalli e irresponsabili da un lato e dall’altro i poteri economici e le loro propaggini editoriali che quotidianamente cercano di mettere in crisi il governo, auspicando unità nazionale e ulteriori slittamenti a destra.

È una instabilità emotiva oltre che politica. Più che a esplosioni di rabbia collettiva dovremmo prepararci a una sequenza di implosioni distruttive; più che ad atti collettivi di riscossa e progressivi rischiamo di assistere a una concatenazione di conflitti episodici e individuali, ci avviamo al tutti contro tutti, e ovviamente a un nuovo capitolo della guerra tra poveri. Dobbiamo disinnescarla e organizzare una diserzione da questa guerra, evitare di scontrarci tra noi che per vivere dobbiamo lavorare, tra noi che non abbiamo rendite e certezze. Dobbiamo tornare a fare politica per costruire una società più giusta.

Una scelta necessaria: chiusura e tutele

La situazione sanitaria è drammatica. La curva dei contagi che continua a crescere in maniera esponenziale ci porta diritti al collasso del sistema sanitario.

Lo stato attuale della pandemia e l’inadeguatezza di un sistema sanitario che da decenni viene smantellato e privatizzato ci impongono misure drastiche e proporzionate non alla situazione che viviamo oggi, ma a quella che vivremo tra poche settimane. Il governo Conte oggi sceglie la gradualità preoccupato di non avere il consenso sociale e le risorse economiche per conquistarlo. Ma quando sarà troppo tardi per intervenire e il sistema sanitario sarà collassato non sapremo che farcene dei sondaggi. Noi crediamo che la popolazione vada messa in sicurezza e che il lockdown non acuisca la crisi economica, ma anzi consenta di uscirne prima.

Vogliamo uno Stato che tuteli tutte e tutti, in primis i più deboli, gli anziani, i malati e chiunque abbia bisogno di cure.

Per questo, per salvare il sistema sanitario e per salvare migliaia di vite, servono chiusure drastiche che consentano di fermare la catena di quei contagi che dai mezzi pubblici sovraffollati ai luoghi di lavoro si propagano nelle case di decine di migliaia di persone ogni giorno.

Per consentire tale scelta drastica servono misure socio economiche adeguate e servono subito. Non è pensabile scegliere tra il virus e la fame.

Non c’è spazio per ambiguità: da un lato c’è chi chiede libertà da una presunta oppressione sanitaria e fiscale, dall’altro lato chi chiede tutela sanitaria e sociale.

Noi stiamo con chi chiede protezione sociale e sanitaria: “pane e salute”.

Per questo è necessario prevedere immediatamente degli interventi a tutela di chi subisce maggiormente gli effetti della scelta della chiusura:

  • Vivere con dignità, difendere lavoro e salario. Mantenere il blocco dei licenziamenti e dare respiro ai milioni di persone in crisi. Anche chi è protetto da ammortizzatori è povero e non riesce a vivere: bisogna pagare la cassa integrazione arretrata a centinaia di migliaia di lavoratori che da mesi sono in attesa e ampliare gli ammortizzatori introducendo una soglia più alta. Poche centinaia di euro non bastano.
  • La casa è un diritto, la rendita no. Stop degli sfratti e immediato blocco degli affitti: i contributi che lo Stato eroga per famiglie e commercio non possono finire nella rendita di chi magari possiede un enorme patrimonio immobiliare.
  • L’emergenza è il reddito. Semplificare l’accesso al reddito di emergenza attraverso uno snellimento delle procedure e ampliare in modo strutturale il reddito di cittadinanza, sia sotto il profilo degli importi che della platea.

Si tratta di prime misure urgenti e necessarie. Abbiamo però anche bisogno di un grande piano per la ricostruzione e trasformazione dell’intero Paese.

I lockdown non sono tutti uguali

Il lockdown non è uguale per tutti. C’è chi vive in 40 mq e chi ha spazio a volontà. C’è chi non ha neanche un balcone e chi ha un intero giardino. C’è chi ha un solo device da dividere tra didattica a distanza dei figli e smartworking dei genitori, e chi ha abbondanza di tablet, computer, televisori e fibra ottica.

Per chi vive in condizioni di difficoltà socio economica il passaggio alla didattica a distanza, prolungato di mese in mese, avrà un impatto disastroso, in termini di mobilità sociale, livello di formazione e aumento della dispersione scolastica.

È insopportabile la vulgata del “beato te che lavori da casa”; chi da mesi è in smart working in case piccole e inadeguate, senza orari di lavoro e senza diritto alla disconnessione è sul punto di esplodere. Il lavoro da remoto (che ben poco ha di smart) ha bisogno di diritti e regolamentazione.

Per milioni di cittadine e cittadini l’impatto di un nuovo lockdown dal punto di vista psicologico è devastante: per questo serve parlarne, serve aver cura di questo aspetto anche nella comunicazione pubblica e bisogna abbattere lo stigma nei confronti della terapia e della cura della salute mentale. Ma più di tutto serve un’assistenza psicologica di base gratuita.

Una richiesta di buon senso: paghi chi può

La prima ondata ci ha colti impreparati, smarriti. Ne siamo usciti sperando che andasse tutto bene, stringendoci gli uni agli altri, raccontandoci che chi aveva continuato a lavorare era un eroe e che eravamo tutti sulla stessa barca. La tempesta che ci ha colpiti però ci ha mostrato che non è così.

Non siamo tutti sulla stessa barca. Anche in questa pandemia c’è chi si è arricchito e chi, colpito da qualche onda, ora riversa l’acqua che toglie dal suo scafo addosso a quelli chi hanno meno e stanno già affogando.

A pagare, stavolta, deve essere chi ha di più: deve essere attivata subito una tassa per i grandi patrimoni e per la rendite, messo in piedi un meccanismo per far pagare le grandi corporation e aumentata la progressività fiscale non solo per i redditi da lavoro ma anche per quelli da capitale. Bisogna usare queste risorse per potenziare il sistema sanitario nazionale e dare aiuti a chi ha meno.

Un investimento sul futuro

Per anni ci hanno detto che il debito pubblico è il male, che non bisogna fare spesa pubblica. In questi mesi tutti hanno dovuto fare i conti con il fatto che l’unica uscita possibile da questa situazione passa per il fare deficit subito e dallo scegliere di utilizzare i fondi del recovery fund nell’interesse anzitutto di chi vive in condizioni di debolezza e diseguaglianza, riducendo il divario tra poveri e ricchi, tra donne e uomini, tra chi ha e chi non ha.

Bisogna usare la spesa pubblica e le risorse europee per riprogettare e ricostruire l’Italia in modo diverso, in un senso più equo socialmente e sostenibile ambientalmente, riprendere in mano la politica industriale, riprogettare le città, dagli spazi pubblici ai trasporti.

Per fare ciò bisogna definitivamente abbandonare il patto di stabilità e il modello economico europeo, incompatibile con ogni prospettiva di uscita dalla crisi che sia duratura e solidale. L’Europa deve e può iniziare tutta un’altra storia.

Bisogna dare priorità a misure emergenziali che intervengano sul limitare la rendita e redistribuire verso il basso, per dare una nuova prospettiva al nostro paese. Serve un grande piano di assunzioni pubbliche, non solo nel settore sanitario e scolastico, sarà necessario affrontare di petto la crisi creando nuovi posti di lavoro e contestualmente rinnovando la pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione deve assorbire l’enorme contraccolpo di disoccupazione che ci sarà nei prossimi mesi, ma deve farlo dentro un quadro di innovazione e incremento dei servizi per i cittadini. Serve un piano di riconversione ecologica per rilanciare l’economia e aver cura del nostro territorio e dell’aria che respiriamo, e un piano di riuso del patrimonio pubblico per contrastare la desertificazione culturale e sociale delle città.
Serve immaginare un’Italia e un’Europa diversa. Il mondo ci sta cambiando. Cambiamolo.

Una moltitudine senza voce

Le proteste sono esplose in molte città. In alcuni casi con piazze eterogenee, composite, contraddittorie, come risposta istintiva a bisogni concreti. Non ci interessa una discussione morbosa intorno a quelle mobilitazioni. Ci preme solo ribadire quel che deve essere chiaro a tutti: il lockdown deve accompagnarsi a ingenti risorse per i cittadini e le cittadine, per le attività economiche, per i lavoratori e le lavoratrici che attendono da mesi la cassa integrazione, per chi è disoccupato, per chi non ha una casa, un reddito, per chi è migrante, per chi vive alla giornata, per chi da mesi non ha un reddito.

In alcune città gruppi neofascisti hanno provato a cavalcare la protesta, sfruttando la grande visibilità mediatica data loro da alcuni gruppi editoriali, dimostrandosi ancora una volta al servizio dei potenti e dei loro interessi.

Le difficoltà e le sofferenze del settore del commercio hanno avuto in questi giorni grande visibilità. Il tema della desertificazione delle strade in cui viviamo ci interessa e riguarda tutti. Il rischio che il commercio e la ristorazione diventino prerogativa di grandi gruppi economici e delle mafie deve preoccuparci tutti. Ma non possiamo non evidenziare come siano spariti dal dibattito pubblico le sofferenze di chi in quei luoghi e settori lavora, di chi con salari da fame e spesso in nero e senza tutele da mesi non sa come mantenere la propria famiglia. Nessuno parla di chi a fine mese ha un affitto da pagare e bollette non pagate che si accumulano. Sono scomparsi dalla narrazione pubblica quelli che a marzo venivano esaltati come eroi: i riders che girano da soli per la città dopo le 18, chi lavora nei supermercati, le partite iva, chi aspetta ancora la cassa integrazione di aprile, i lavoratori e intermittenti dello spettacolo e della cultura, gli interinali e precari della sanità in prima linea.

In troppi sono afoni. Più che la gara a sovrastare la voce degli altri dovremmo impegnarci per dare voce a chi non ce l’ha e riportare le lavoratrici e i lavoratori, i disoccupati, chi non ha un reddito, al centro della scena.

Un’azione solidale, reinventare la partecipazione: il mutualismo

Da nord a sud, nelle metropoli e nei piccoli centri c’è chi non si arrende all’individualismo e si organizza. Da mesi le azioni mutualistiche e solidali dal basso non si sono mai fermate. L’inventiva e l’efficienza che ha portato movimenti, associazioni e reti dal basso a organizzare una rete capillare di mutuo soccorso, dalla distribuzione alimentare agli sportelli psicologici, dalla raccolta di materiale scolastico e di dispositivi per la didattica a distanza alla tutela dei lavoratori: queste iniziative dal basso sono state decisive e saranno cruciali nelle prossime settimane.
Migliaia di volontari sono pronti a rimboccarsi ancora le maniche, indossare la mascherina e organizzare risposte concrete.
L’ambito di azione collettiva prioritario oggi non può che essere organizzare la cura delle comunità, dei quartieri, delle migliaia di persone abbandonate dallo Stato.

Per questo è necessario fare rete, organizzare momenti di condivisione di pratiche, e mettere in campo sempre più iniziativa solidale.

Chiudersi in casa non può e non deve voler dire chiudersi in se stessi.

Un’azione collettiva: riprenderci lo spazio pubblico

I balconi ci stanno stretti. Rispetteremo e invitiamo tutte e tutti a rispettare con serietà le misure anticontagio, ma chiudersi in casa non può voler dire isolarsi e abbandonare la lotta politica e l’impegno sociale e per i diritti.

Possiamo e dobbiamo per quanto possibile manifestare, ma le nostre piazze devono essere esplicitamente e simbolicamente schierate dalla parte della cura e della tutela della propria comunità. Bisogna immaginare pratiche organizzative che tutelino la salute collettiva: le nostre piazze non possono essere scambiate con assembramenti e focolai.

Non si tratta del solito dibattito sulle pratiche politiche. Il punto sono i messaggi simbolici che lanciamo protestando, apparire vistosamente attenti alla tutela collettiva, oltre che esserlo nella pratica, è centrale per costruire consenso, capacità espansiva e inclusiva, coerenza tra messaggio e pratica, credibilità.

La pandemia ha cambiato molte cose, tra queste ha rimesso in discussione l’uso dei corpi nella protesta: fino a pochi mesi fa tornati da una manifestazione la prima cosa che ci chiedevano era “quanti eravate?”, più si stava ammassati in una piazza, maggiore era il successo della piazza. Con i corpi ci siamo opposti, abbiamo fatto resistenza, abbiamo bloccato le strade. Molto oggi è cambiato e anche per questo senso serve immaginare una dimensione fortemente performativa per portare le nostre istanze nel dibattito pubblico con efficacia.

L’inverno sarà lungo, la pandemia ancora di più. Non possiamo accettare l’idea della rinuncia all’azione collettiva.

Dobbiamo riprenderci lo spazio pubblico dare voce a chi non ce l’ha.

Davanti a tutto ciò serve organizzarsi e reagire.

Sta arrivando UP.

Alziamo la testa!