La congiura contro i dipendenti pubblici

Simone Fana per Jacobin Italia

Un piano straordinario di occupazione nel pubblico impiego è la priorità con cui la politica e la società italiana dovranno confrontarsi nei prossimi mesi. La carenza degli organici è un dato ormai strutturale, che la crisi sanitaria ha evidenziato con ricadute drammatiche per l’intera collettività. Dalla sanità all’istruzione, dall’università ai servizi sociali, dalle funzioni amministrative degli enti locali alla manutenzione dei nostri territori, mai come oggi la necessità della ricostruzione economica e culturale del paese deve partire da un intervento massiccio di assunzioni nella pubblica amministrazione, coinvolgendo le nuove generazioni in un programma di rilancio del paese.

Eppure, i dipendenti pubblici tornano a essere il bersaglio privilegiato contro cui scagliare accuse e invettive con l’obiettivo dichiarato di addebitargli i costi della crisi. Un attacco che si è radicalizzato all’indomani dell’annuncio dello sciopero generale del pubblico impiego indetto il 9 dicembre: da chi vorrebbe tassarli per recuperare le risorse necessarie per far fronte alla caduta del Pil a chi paventa la necessità della Cassa Integrazione per contenere la spesa pubblica. Un fenomeno che si presenta con regolarità a ogni momento di crisi dell’economia e della società italiana. 

Breve storia di un déjà vu 

Il livore contro i dipendenti pubblici affonda le sue radici in quel passaggio d’epoca che in Italia viene comunemente riconosciuto con la fine della prima Repubblica. L’eco di Tangentopoli non ha soltanto spazzato via la repubblica dei partiti, alterando la forma della politica tradizionale, ma ha finito per erodere la credibilità dell’ossatura dello Stato, riducendo la funzione pubblica a mera espressione di clientele, corruzione e rendite di posizione.

Non è un caso che con l’ingresso nella seconda Repubblica, il piano della competizione politica si sia spostato gradualmente sulla necessità di dare voce alla crescente sfiducia dei cittadini nella macchina pubblica, piuttosto che al tentativo di mediare e rappresentare bisogni, interessi e aspirazioni. Le privatizzazioni delle imprese pubbliche sono andate di pari passo con le riforme della macchina statale volte a equiparare l’assetto delle relazioni sindacali tra pubblico e privato, in un clima culturale segnato dall’incubo del debito, di cui la spesa pubblica è divenuta la principale responsabile. Insomma, la sfida della modernizzazione doveva fare i conti con un passato recente, in cui intrighi e malaffare, trame occulte e rendite di posizione trovavano nei dipendenti pubblici e nei loro ingiustificati privilegi il vero capro espiatorio. Lo stesso processo di integrazione europea, affermatosi con la ratifica del Trattato di Maastricht, viene accompagnato da promesse solenni sul contenimento del deficit e sull’efficientemento della pubblica amministrazione. Matura all’epoca la convinzione che solo una politica di moderazione salariale e la contestuale riduzione del peso dello Stato nell’economia costituiscano l’ancora di salvezza di un paese che ha vissuto sopra le proprie possibilità, gravando sulle spalle delle nuove generazioni. La stessa difficoltà dei giovani nell’accesso al mercato del lavoro viene ricondotta all’eccessiva rigidità del sistema di relazioni sindacali, e all’intoccabilità di alcune figure professionali, tra cui i dipendenti pubblici incarnano il privilegio del «posto fisso». Un mantra che ricompare con violenza inaudita all’indomani della grande crisi del 2007-2008, quando la canea contro il lavoro pubblico viene alimentata da rappresentazioni punitive, che dipingono i dipendenti pubblici come «fannulloni» – espressione coniata dall’allora ex Ministro della pubblica amministrazione Renato Brunetta – lavativi, dediti all’ozio, da licenziare, mentre il costo della crisi grava interamente sui ceti produttivi, notoriamente collocati nel centro nord. Un immaginario utile a giustificare la necessità di tagli lineari alla spesa pubblica, a partire dal blocco del turn over, che produrrà nell’arco di un decennio una riduzione di circa mezzo milione di occupati nel settore pubblico. Alla contrapposizione tra ceti produttivi e improduttivi se ne aggiungerà un’altra, quella tra «garantiti» e «non garantiti» che serve a legittimare il contenimento salariale e la riduzione delle tutele collettive, con la retorica per cui solo se solo se si sarà capaci di attaccare i privilegi dei «garantiti» sarà possibile estendere tutele e diritti ai «non garantiti». È il canovaccio retorico con cui Matteo Renzi annuncerà l’avvento della riforma del lavoro, nota come Jobs Act, presentata con i consueti toni trionfalistici come una rivoluzione copernicana. 

Ideologia e realtà

Per capire meglio la portata dell’attacco al lavoro pubblico conviene confrontare il piano del discorso con quello della realtà. Un esercizio necessario per diradare la foschia che inquina la percezione diffusa nel paese, alimentata ad arte da un blocco di interessi che ha costruito la propria fortuna sulla balcanizzazione del mondo del lavoro. Dal 1990 al 2010, secondo le statistiche Istat rielaborate in un recente studio della Banca d’Italia, gli occupati nella pubblica amministrazione sono passati da circa 3 milioni e 800 mila a 3 milioni e 500 mila, un trend che si è ulteriormente consolidato nel decennio successivo. Se prendiamo in considerazione l’arco di tempo che va dall’anno che precede lo scoppio della grande crisi del 2007 sino al 2017 la contrazione di occupati nel pubblico impiego è di circa il 7,4%. Una delle performance peggiori nell’alveo dei paesi Ocse, dietro solo a Turchia, Regno Unito, Israele e Germania. 

Ma se i dati ci aiutano a comprendere i fenomeni in una prospettiva dinamica, è utile mettere a fuoco il rapporto che lega i momenti di crisi economica e sociale e le ricadute sul lavoro pubblico. In questa direzione è rilevante notare come le politiche di contenimento della spesa costituiscano un elemento di continuità nella risposta alle fasi di recessione economica. Colpisce, infatti, come davanti ai due principali tornanti della storia recente (la crisi del 1992 e quella del 2007/2008) l’attacco ai dipendenti pubblici abbia costituito un elemento fondamentale nel riassetto della società italiana, alterando la struttura occupazionale del paese verso una terziarizzazione a basso valore aggiunto. Mentre i grandi giornali alimentavano il coro di indignazione contro gli immeritati privilegi del pubblico impiego e il ceto politico cavalcava la rabbia della società contro il mondo dei garantiti, la politica economica e di bilancio sanciva la riduzione drastica della spesa pubblica. Già sul finire degli anni Novanta la riduzione dei costi veniva individuata come un elemento di stabilità finanziaria del paese, ma saranno le leggi di bilancio approvate nel cuore della crisi economica (dal 2007 al 2011) a sconvolgere quel che resta dell’ossatura della pubblica amministrazione. Norme ispirate da un obiettivo comune: il contenimento della spesa attraverso il blocco del turn over e la moderazione salariale – stabilendo il principio secondo cui per cinque lavoratori che andranno in pensione ci sarà un solo nuovo assunto. Salvo alcune eccezioni che riguarderanno in parte la Scuola e il settore della difesa, il criterio della riduzione del personale dipendente dello Stato si affermerà senza soluzione di continuità per l’intero decennio. 

Spostando l’attenzione sulla dimensione qualitativa e settoriale emerge che la contrazione dell’occupazione pubblica ha colpito in maggior misura la Sanità e l’Università. Comparti osannati dalla retorica governativa nel periodo più drammatico della pandemia, eppure falcidiati da tagli criminali. Solo nella sanità l’occupazione ha subito una contrazione nel decennio 2008-2018 del 6%. Una cifra che non consente di cogliere la portata reale dei tagli, se non si specifica che ad avere la peggio è stato l’insieme del personale non dirigenziale: infermieri, tecnici di laboratorio, personale ausiliario, gli «eroi» della pandemia, la base portante del sistema sanitario nazionale, sono le categorie su cui si è scaricata la crisi. Una sorte analoga, ma addirittura più esplicita nei numeri, è quella riservata al mondo dell’università. Qui i dati segnalano che nell’arco di un decennio i ricercatori sono passati da 20.000 (nel 2008) a 12.600 (nel 2018), i docenti ordinari da 20.000 a 13.000. L’età media dei professori ordinari è passata da 47 anni nel 2007 a 53 anni nel 2018. Un trend che è visibile nell’intera struttura occupazionale del pubblico impiego, dove l’età media si aggira sui 55 anni. 

Le trasformazioni sul versante occupazionale hanno avuto una ricaduta anche sulla dinamica salariale, che ha conosciuto il blocco decennale (dal 2009) nel rinnovo dei contratti. Secondo i dati messi a disposizione da uno studio del centro di ricerca del sindacato confederale europeo (Etuc) sull’andamento del settore pubblico e privato negli anni successivi alla crisi del 2008, nel periodo dal 2010 al 2013 l’andamento della dinamica salariale nel settore pubblico rispetto a quello privato è stato addirittura negativo. Il differenziale si attestava sul -7,4%, a dimostrazione che i famosi sacrifici sono pratica comune tra i lavoratori e le lavoratrici della pubblica amministrazione (si veda il dettagliato rapporto sul pubblico impiego curato e redatto da  Marta Fana per la Fondazione di Vittorio, in cui viene mostrato senza mezzi termini il differenziale salariale tra categorie dirigenziali e non dirigenziali). Un quadro che è evidente anche esaminando un periodo più lungo come risulta dallo studio redatto dall’Eurofound, che ha analizzato la struttura occupazionale degli Stati membri nel periodo dal 2002 al 2017. Un’altra evidenza, che mostra, senza possibilità di smentita, la dinamica negativa dei salari nel pubblico impiego e la preoccupante specializzazione dell’economia italiana verso i settori più poveri.

Insieme alla riduzione delle piante organiche il settore pubblico è stato investito da una crescita rapida di rapporti di lavoro precari. Diversamente dal mito dell’intoccabilità del posto fisso e del lavoro garantito, i nuovi assunti nella pubblica amministrazione sono spesso e volentieri inquadrati con contratti a termine. Anche qui la leggenda sui dipendenti pubblici «garantiti» da contrapporre a una forza lavoro precaria e priva di tutele è il frutto di un’ideologia che ha scientificamente distorto la realtà del paese. Sul finire degli anni Novanta i contratti a termine sono diventati una pratica comune anche nel settore pubblico. Negli anni dal 2002 al 2006 i dipendenti pubblici a tempo pieno con contratti temporanei sono aumentati del 10% a fronte di una caduta dei lavoratori a tempo indeterminato. Il settore pubblico non appare immune dalla crescita esponenziale del part-time involontario, che abbraccia i settori dove si colloca l’incremento occupazionale (alloggi, ristorazione), ma diviene al tempo stesso una modalità a cui si ricorre frequentemente nella pubblica amministrazione, a farne maggiormente le spese, neanche a dirlo, le donne. Secondo i dati elaborati dal Cnel nel XXI rapporto sul Mercato del lavoro emerge che dal 2008 al 2018 il part-time involontario cresce del 5,8% a fronte di una caduta del full time del 15,2% e, dato ancora più emblematico, dal crollo del 23,4% del part time volontario. 

Un quadro paradigmatico che consente di cogliere quanto le rappresentazioni prodotte negli ultimi decenni per alimentare indignazione e diffidenza tra i lavoratori e le lavoratrici abbiano funzionato da schermo ideologico delle scelte politiche. Mentre, infatti, si tagliavano posti di lavoro nel comparto pubblico e con il blocco del turn over veniva chiusa la porta alle giovani generazioni, la narrazione dominante sventolava il vessillo del conflitto generazionale o tra «garantiti» e «non garantiti» per spostare il campo di battaglia dal vertice alla base della società. Giovani contro anziani, produttivi contro improduttivi, lavoratori pubblici contro lavoratori privati: cambia la forma ma la sostanza resta identica. 

Eroi per un giorno

Le crisi producono una separazione tra un «prima» e un «dopo», rappresentano un punto di rottura nell’intera esperienza umana. È così anche per la crisi sanitaria, scoppiata nel febbraio scorso. Un evento imprevedibile che ci ha costretto a fare i conti con il passato recente, con le verità che credevamo incrollabili fino a qualche tempo fa. Questo è il portato profondo della crisi sanitaria, il patrimonio prezioso che potrebbe ancora, e nonostante tutto, costituire un nucleo vitale per ripensare la società in cui viviamo. Ci siamo accorti, soprattutto allo scoppio della prima ondata, che i tagli messi a segno nel cuore del settore pubblico hanno lasciato il paese esposto, fragile, impaurito di fronte alla voracità del virus. Le terapie intensive stracolme notte e giorno, le immagini degli infermieri, travolti dalla stanchezza che provavano con tutta la passione e l’umanità possibile a gestire un’emergenza infinita, hanno monopolizzato per un istante il nostro immaginario. Per un istante, che sembra volato via, li abbiamo chiamati «eroi», «angeli», ci siamo commossi vedendoli dormire esausti nei corridoi degli ospedali. Per un attimo abbiamo capito che dietro un trentennio di ideologia liberista, di tagli selvaggi, si nascondevano gli interessi di pochi contro gli interessi dei molti. Lo abbiamo avvertito dentro un’ondata emotiva che ci ha segnati. Ma la durata della commozione collettiva è subito scemata nelle settimane successive, quando alla ribalta sono tornate le rappresentazioni di ieri, del mondo che pensavamo di esserci lasciati alle spalle. Sono tornati i Pietro Ichino ha rispolverare le vecchie invettive brunettiane, sostenendo chei dipendenti pubblici in smart working erano in vacanza. È tornato Tito Boeri chiedendo la Cassa Integrazione per chi a suo dire coltiva privilegi immeritati: il posto fisso. E sono tornate le antiche contrapposizioni tra lavoratori pubblici e privati, con la lettera aperta con cui lo stesso Boeri insieme a Roberto Perotti accusano i sindacati che indicono lo sciopero del 9 dicembre di farsi odiare dai lavoratori privati. Un film già visto, con i suoi protagonisti ormai con qualche capello bianco ma il livore di sempre nel tentativo di riportare il paese indietro in quel tempo in cui il lavoro da diritto sancito dalla Costituzione si trasformava in privilegio di pochi al tempo in cui il welfare era sinonimo di costo da contenere e non di investimento da promuovere. Il tempo che ci ha portati sino a qui, nel paese in cui è scandaloso tassare i ricchi, mentre è normale tassare i dipendenti pubblici. I numeri, come scrive Giacomo Gabbuti, si fanno merce rara e quello che conta è l’ideologia, infarcita di pregiudizi ancestrali, esempio limpido di odio di classe senza mediazioni e pudore. 

Nel momento in cui i numeri e la realtà chiederebbero un investimento massiccio di personale nella pubblica amministrazione per rimettere in sicurezza il paese, il coro dei liberisti all’amatriciana vorrebbe che il discorso si focalizzasse sull’opportunità dello sciopero per nascondere le ragioni della protesta. Perché nelle motivazioni di quello sciopero c’è tutto quello che abbiamo sentito nei giorni di marzo, ci sono gli infermieri sottopagati, gli operatori sanitari esternalizzati che lavorano notte e giorno a 7 euro all’ora – i quali hanno già scioperato chiedendo tra le altre cose l’internalizzazione – c’è ancora quella parte del paese che ci consente di sperare di uscire meglio di come siamo entrati in questa maledetta pandemia. Sarebbe preferibile, quindi, che il premier Giuseppe Conte e il governo evitassero di criticare l’opportunità dello sciopero e cominciassero a risolvere i problemi che lo sciopero pone. 

*Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e con Marta Fana di Basta Salari da Fame (Laterza). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.