Il fantasma della patrimoniale

È bastato un emendamento alla finanziaria per un’imposta sui patrimoni sopra i 500 mila euro per scatenare l’allarme in difesa del «ceto medio». La tassa toccherebbe il 6% della popolazione che detiene il 45% della ricchezza.

Giacomo Gabbuti per Jacobin Italia

Ealla fine arrivò la patrimoniale. In un annus horribilis non poteva mancare il fantasma più terrificante. Galeotto un emendamento alla finanziaria che, assieme ai parlamentari del gruppo di Liberi e Uguali registra firme «pesanti» di diversi esponenti del Partito democratico, tra cui l’ex presidente e compagno di Playstation di Renzi, Matteo Orfini. 

Ispirata alle misure annunciate dal governo spagnolo pochi mesi fa, la proposta è riuscita a compattare contro di sé non solo tutto il resto della maggioranza, ma anche le opposizioni. Chissà com’è, basta la vaga idea di spostare appena il peso fiscale dalle spalle dei lavoratori a quelle dei più ricchi per ricompattare quasi tutto l’arco parlamentare. Dal segretario Dem un tempo tacciato di «corbynismo» (che chiarisce immediatamente si tratti di «una iniziativa libera ma individuale di alcuni deputati del Pd, che però non impegna il gruppo»), alla destra «populista», che dovrebbe rappresentare il «popolo» abbandonato dalla «sinistra», passando ovviamente per il grande centro, dove si affollano Italia Viva, un Di Maio desideroso di meritarsi il bacio di Brunetta, e Forza Italia, che per alcuni è già parte della maggioranza.

La colonna sonora di questa commedia romantica è più scontata della trama: la grande stampa italiana, come al solito monopolizzata dai maître à penser del liberismo de noantri, tuona all’unisono contro l’iniziativa. Se la Stampa sbatte Alessandro De Nicola in prima pagina (Le mani dello Stato sui nostri portafogli, fantasioso quasi come la Adam Smith Society di cui è presidente, ben al di sotto dei picchi creativi sfoggiati in difesa di Feltri jr.), il Corriere si concede la sciccheria di includere nel suo inserto economico Alberto Mingardi. Senza parlare direttamente della patrimoniale, il direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni (celebre per il «contatore del debito pubblico» italiano e per lo sfacciato negazionismo climatico) ci spiega che l’aumento delle disuguaglianze sarebbe una mera «illusione ottica». In ossequio alla sua proverbiale eleganza, Mingardi lo fa omettendo qualsiasi riferimento a dati, grafici, o altre volgarità tipiche di noi sgraziati materialisti storici.

Del resto, chissà com’è, quando si arriva a parlare di tassare i più ricchi, nel piccolo grande mondo dei «liberali» all’amatriciana, i numeri si fanno merce rara. «Conoscere per deliberare» – ma quando mai! A cosa servono i numeri, le statistiche, persino la lettura del testo dell’emendamento, quando si può parlare per luoghi comuni? Ed ecco che all’improvviso, i soliti «comunisti» vogliono mettere le mani nelle borse delle vecchiette, tassare al 120% la fatina dei dentini, e dare la caccia alla più minacciata delle specie in via di estinzione: il ceto medio. Cosa sia questa bizzarra creatura non è chiaro: qualcuno sostiene di averla vista ereditare tre attici nel centro di Milano; qualcuno giura possieda migliaia di euro in titoli azionari; ma c’è anche chi prega per i molti sfortunati che ereditano multinazionali di famiglia. 

Fatto sta che, di fronte a un provvedimento che aboliva «micropatrimoniali» già esistenti – l’Imu sulle seconde case, l’imposta di bollo su conti correnti e deposito titoli – per sostituirla con una imposta dallo 0.2 al 2% applicata solo oltre i 500 mila euro di patrimonio, gli stessi che sostenevano suggestivi patti tra competenti contro gli «opposti populismi» si ritrovano allineati a Matteo Salvini nel «no a nuove tasse».

Chi pagherebbe la tassa

Eppure, i numeri raccontano che un provvedimento come quello proposto riguarderebbbe una quota decisamente minoritaria di italiani. Utilizzando i dati più facilmente accessibili – quelli dell’indagine campionaria della Banca d’Italia, liberamente scaricabili online – veniamo a sapere che il patrimonio netto della famiglia «mediana» italiana è di 126 mila euro. Visto che la ricchezza finanziaria è appannaggio quasi esclusivo dei più ricchi, per l’italiano «mediano» questa cifra è fatta quasi interamente di immobili: anche considerando solo le città sopra i 500 mila abitanti, il valore delle case possedute dalla famiglia mediana è di 170 mila euro. Per superare la soglia dei 500 mila euro di ricchezza familiare complessiva (al netto di debiti e mutui), bisogna entrare dentro l’ultimo decile. Dunque, secondo i dati di Banca d’Italia, nemmeno una famiglia su dieci verrebbe toccata, a fronte di quelle che smetterebbero di pagare Imu e imposte di bollo. Tra i pochi «sfortunati» c’è solo il 2% degli operai, poco più del 7% degli impiegati (compresi quelli pubblici, su cui molti autorevoli commentatori cercano di attirare l’invidia sociale), e circa un pensionato su 10 – a fronte di un quarto dei dirigenti e un po’ meno di un terzo degli imprenditori. 

Certo, come tutte le rilevazioni statistiche, anche quella della Banca d’Italia è imperfetta. L’indagine si basa sulle famiglie (mentre l’imposta si applicherebbe ai singoli contribuenti), e sovrastima il valore degli immobili – riportandone i prezzi d’acquisto, tendenzialmente molto più elevati dei valori catastali su cui dovrebbe applicarsi l’imposta. Vale la pena sottolineare che proprio chi accusa la sinistra di rappresentare le «ZTL» delle grandi città, consideri «normale» ereditare immobili con valore catastale superiore al mezzo milione di euro – dato che rende evidente quanto il dibattito italiano sia arretrato e schiavo di pregiudizi, come rilevato da Andrea Roventini sul manifesto. 

Consultando i dati sulle successioni, sulla base delle quali Paolo Acciari (Mef) e Salvatore Morelli (Roma 3) stanno proponendo misure più accurate della ricchezza dei «paperoni» italiani, viene fuori che a «piangere» sarebbero ancora di meno: circa il 6% dei contribuenti. Un piccolo gruppo, che difficilmente andrebbe in rovina per le lievi aliquote proposte, visto da solo si gode circa il 45% della ricchezza complessiva. Dai dati di Acciari e Morelli emerge anche come il rapporto medio tra valori di mercato e catastali sia superiore a 3 (e proprio nei centri storici delle città questo valore è ancora più alto): senza una riforma del catasto, per rientrare nella patrimoniale bisognerebbe dunque ereditare una casa dal valore di mercato di almeno un milione e mezzo. Altro punto importante sollevato da Morelli, è che la ricchezza non è solo frutto di «merito» individuale, ma ancor più del reddito riflette spesso gli investimenti della collettività: pensiamo proprio all’aumento di valore degli appartamenti nelle aree gentrificate delle grandi città.

Cos’è davvero una patrimoniale

C’è da dire che nemmeno i più ottimisti dei promotori potevano sperare che bastasse buttar lì un emendamento per portare a casa una simile misura – non la panacea di tutti i mali, ma certo in netta controtendenza rispetto al clima politico degli ultimi anni, tanto più in una legislatura iniziata nel segno della flat tax. Ancor più improbabile nel contesto di un governo che va in pezzi parlando di plastic tax, e messo sempre più in difficoltà dalla seconda ondata, e che continua a rinviare in modo grottesco i dossier economici. Nelle parole di Orfini riportate da Domani, al massimo si poteva «provare almeno a discuterne ‘laicamente’».

In questo senso, va riconosciuto che la proposta, ponendo al primo comma l’abolizione di Imu e imposta di bollo, cercava di superare l’impasse generata nel dibattito italiano dal termine «patrimoniale». Quella che infatti, per gli ultimi reduci della sinistra, rappresenta la messianica quanto vaga promessa di «far pagare i ricchi», genera in altri pensieri più cupi. Che sia frutto della confusione dei proponenti, o della sistematica mistificazione mediatica, è un fatto che in Italia qualsiasi proposta di prelievo progressivo sui più ricchi – anche sui redditi, come quella spuntata in modo poco meno estemporaneo lo scorso aprile – venga impropriamente definita «patrimoniale». Eppure in italiano, come dovrebbe chiarire l’etimologia, il termine indica un prelievo basato sul patrimonio – cioè sul complesso dei beni posseduti (case, risparmi, titoli, e così via) – e non sul reddito guadagnato (sia composto di salario, rendite immobiliari o finanziarie). Questo a prescindere dalla sua progressività – e cioè che chi è più ricco paghi di più non solo in termini assoluti, ma in proporzione alla capacità contributiva. 

Alcuni paesi (soprattutto nord-europei) vantano una lunga tradizione di imposte sulla ricchezza detenuta da persone e famiglie (imposte simili sono in vigore in Norvegia e Svizzera; un quadro recente l’ha fornito l’Ocse). In Italia invece, se si escludono alcuni provvedimenti straordinari presi a cavallo delle due guerre mondiali, si ricordano due principali casi: le imposte sugli immobili, che in una girandola di esenzioni e acronimi hanno animato la seconda Repubblica, ma soprattutto, il leggendario prelievo forzoso del sei per mille imposto dal governo Amato nel 1992. Questo atto, oggettivamente con pochi precedenti (e spesso visto, ex post, come primo «sacrificio di sangue» versato sull’altare dei vincoli europei) traumatizzò un’intera generazione di contribuenti. Ma anche Imu e Ici non godono di buona fama, colpendo quella parte della ricchezza che è più diffusa in un paese dove i proprietari di casa sono più numerosi che altrove (seppur secondo l‘Agenzia delle Entrate, almeno un quarto delle famiglie non possiede la casa dove abita). La stessa imposta di successione (quella sulla ricchezza ereditata), decisamente difendibile da posizioni moderatamente liberali, in Italia è stata abolita ben due volte, senza che chi lo ha fatto ne pagasse grandi conseguenze. Ancora oggi, le aliquote italiane sono tra le più basse, nonostante i dati mostrino l’aumento preoccupante e con pochi precedenti della ricchezza ereditata (non esattamente un sintomo di economia dinamica e «competitiva», e con effetti drammatici sui già preoccupanti livelli di mobilità sociale del belpaese).

Per queste ragioni, un gruppo di professori delle università piemontesi ha definito la loro recente proposta di prelievo progressivo sulla ricchezza finanziaria Paperoniale (per un confronto con la «patrimoniale» appena proposta si veda qui). È infatti gioco facile, per la larghissima coalizione che si oppone alla progressività fiscale e alla redistribuzione di redditi e ricchezze, parlare di patrimoniale per scatenare l’opposizione di chi nulla ha da temere da simili provvedimenti; questo nonostante, come si è visto, andrebbe a toccare una sparuta minoranza che può permettersi e magari è anche disposta a dare qualcosa in più. In effetti, fuori dalla cerchia di addetti ai lavori della politica e dei giornali, i giudizi sembrano essere più favorevoli di quanto era lecito aspettarsi. Paolo Graziano e Matteo Jessoula su Altreconomia riportano i risultati di un sondaggio Swg secondo cui oltre il 60% degli intervistati è «abbastanza» o «molto favorevole» a un  «contributo straordinario di solidarietà nazionale pari al 5% della ricchezza soltanto per il 10% più ricco per finanziare interventi volti a rafforzare i sistemi sanitario, di contrasto alla povertà e pensionistico». Una misura più drastica (per aliquote e soggetti coinvolti) di quella in discussione, tanto che per Graziano e Jessoula potrebbe fruttare circa 117 miliardi. Oltre il 70% sarebbe favorevole a un prelievo sopra il milione di euro (la soglia di applicazione della proposta spagnola). 

Serve un’alternativa radicale di politica economica

Nonostante l’opposizione quasi totale di politica e stampa (e l’assenza di soggetti credibili a sostenerlo), l’emendamento ci segnala, dunque, che una riforma fiscale, capace di riequilibrare il peso delle imposte a favore dei molti, potrebbe rappresentare una vasta maggioranza sociale. Senza riporre troppe speranze nella periodica riproposizione estemporanea di «patrimoniali», sarebbe ora di riprendere seriamente l’iniziativa politica su questi temi. È allora utile, più che chiosare sui dettagli della proposta, appuntarsi alcuni principi generali che è bene tenere presenti.

In primo luogo, il fisco in Italia è un tema delicato, che merita proposte serie e sistematiche: se le paure evocate nel «ceto medio» dalle «patrimoniali» sono create ad arte, non lo è il peso delle imposte, opprimente per chi le tasse le paga – lavoratori dipendenti, ma anche la maggioranza onesta dei lavoratori autonomi. Bisogna allora porsi il tema di una riconfigurazione complessiva del sistema fiscale. In un paese in cui la quota dei profitti sul reddito nazionale è in costante crescita, e le eredità e la ricchezza pesano sempre di più, al sacrosanto principio della progressività deve affiancarsi uno spostamento del peso del fisco dal lavoro alle rendite e alla proprietà. 

Come ha spiegato sempre Morelli su Jacobin Italia, un simile risultato passa, prima che da nuovi prelievi o da aliquote più elevate, dalla ridefinizione dell’Irpef: quella che dovrebbe essere la principale imposta «equalizzatrice», viene oggi pagata quasi solo da lavoratori e pensionati, mentre rendite immobiliari e finanziarie sono tassate con tasse piatte, ad aliquote ben inferiori (il 26% per molte rendite finanziarie, e ancora meno con la «cedolare secca» sugli affitti, al 21 o persino 10%, rispetto a un’Irpef che parte dal 23 e sopra i 15 mila euro è già al 27%). Il contrasto a questa erosione della base imponibile, e al groviglio di esenzioni, deduzioni e detrazioni, oltre a quello all’evasione vera e propria e ai paradisi fiscali (a partire da quelli dentro l’Ue), richiede più lavoro e ripaga con meno visibilità. Ma oltre a dribblare la propaganda reazionaria, offre prospettive concrete per combattere le disuguaglianze migliorando le condizioni di chi sta peggio, oltre che chiedendo di più ai ricchi. 

Da questo punto di vista, va ripresa l’idea di una riforma «a saldi invariati», che abolisce tasse piatte su singoli beni per sostituirle con un’imposta progressiva sulla ricchezza degli individui. Un altro esempio è la proposta di una «imposta sui vantaggi ricevuti» avanzata dal Forum Disuguaglianze: reintroducendo una tassazione progressiva della componente per definizione meno «meritata» della ricchezza, la proposta si applicherebbe a chi eredita più di mezzo milione, esentando tutti gli altri. 

È necessario tuttavia allargare il discorso all’intero sistema fiscale: nel contesto di una riforma complessiva, che riduca il carico fiscale su chi lavora, una nuova imposta di successione o una «patrimoniale progressiva» devono servire a riequilibrare il peso delle imposte dal reddito alla ricchezza, e dal lavoro a rendite e profitti. Se un argomento «storico» di chi si oppone a queste misure è la «doppia tassazione» – un lavoratore che compra un immobile lo fa dopo aver pagato l’Irpef sul suo stipendio – in Italia, oltre ad avere patrimoni anche consistenti costruiti sull’evasione fiscale, abbiamo una tassazione che penalizza chi lavora e non chi eredita una fortuna.

In secondo luogo, se un fisco progressivo è cosa buona e giusta, è bene dirci che non basta, senza chiarire a cosa ci serve. Torna utile, dal libro appena uscito di Emiliano Brancaccio, una citazione illuminante di Mario Monti:

Io sono sempre molto colpito negativamente quando vedo – l’abbiamo visto in Italia per lungo tempo e lo vediamo anche oggi – partiti che si richiamano alla sinistra che però, forse per dimostrare che non hanno niente a che fare con l’ascendenza socialista e marxista, considerano terribile fare uso del sistema fiscale per uno scopo che un capitalista americano accetterebbe pienamente: la ricostituzione di una certa uguaglianza tra i punti di partenza, per esempio, con imposte altamente progressive o con imposte sul patrimonio, che esistono in tanti paesi di vari continenti.

Imposte altamente progressive e/o sul patrimonio sono una questione di equità sociale, persino di efficienza economica; ma proprio per questo, nonostante l’opposizione compatta di M5S, Forza Italia o Lega, non stonano in bocca a Monti o al Fondo Monetario Internazionale. Una sinistra d’alternativa dovrebbe non solo indicare la finalità di un contributo d’emergenza nel finanziamento dei servizi pubblici essenziali e pubblici (senza illudersi che se ne possano ricavare risorse infinite, perché non usarli per stabilizzare i troppi «angeli» precari ed esternalizzati che lavorano nei nostri ospedali?), ma anche offrire un’idea radicalmente diversa della politica economica. 

Senza un cambiamento radicale delle politiche economiche (a partire da quelle industriali), le patrimoniali rappresenteranno al più un mezzo gaudio insufficiente a portarci fuori dalla nostra «crisi dei trent’anni», e a risolvere il dramma di un lavoro sempre più scarso, precario e povero. Nell’attuale congiuntura economica – una crisi spaventosa che continua a colpire più duro giovani, donne, precari, e in cui, mentre i tassi di interesse diventano quasi nulli, salta ogni vincolo alla spesa pubblica – la sinistra non può identificarsi solo nella proposta di nuove tasse, per giuste che siano, ma deve tornare a offrire la prospettiva di un’alternativa radicale quanto praticabile.

*Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica e sociale all’Università di Oxford.